Faida, delitto per zittire un affiliato. Ergastolo ai boss di Secondigliano

Faida, delitto per zittire un affiliato. Ergastolo ai boss di Secondigliano
di Leandro Del Gaudio
Mercoledì 19 Dicembre 2018, 08:38
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Non è bastata la confessione in extremis, né la lettera indirizzata al giudice è servita ad impedire il massimo della pena. Ergastolo per mandanti ed esecutori materiali del delitto di Pasquale Malavita, ammazzato il primo ottobre del 2010.
È stato il giudice Di Palma a firmare la condanna al massimo della pena a carico di Mariano Riccio, di Fabio Magnetti, ritenuti esponenti di spicco del sistema criminale di Secondigliano, ma anche di Alessandro Grazioso, oltre a comminare la condanna a trent'anni di reclusione a carico di Umberto De Vitale.

Eppure, pochi giorni prima del verdetto, Mario Riccio (conosciuto come «Mariano») aveva spedito una lettera al giudice, nel corso della quale si era assunto la responsabilità del delitto. In sintesi, il presunto boss scissionista aveva dichiarato di aver commesso errori quando era giovanissimo, oltre ad aver maturato solo in questi ultimi anni - a causa del rigore del carcere duro - l'esigenza di prendere le distanze da simili soluzioni militari. Una lettera di scuse, ammissioni personali (che non chiamano però in causa altri soggetti del clan o presunti complici), la richiesta di una condizione carceraria diversa rispetto al carcere duro.
 
Una posizione che non ha spinto il giudice, al termine del processo con il rito abbreviato a comminare il fine pena mai a carico di presunti killer e mandanti. Inchiesta coordinata dai pm anticamorra Maurizio De Marco e Vincenza Marra, sotto la guida del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, che faceva leva sulle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia.

In sintesi, Pasquale Malavita venne ucciso perché aveva alzato la posta, chiedendo soldi ai vertici del gruppo della cosiddetta «Vanella Grassi», per non pentirsi, per non fare dichiarazioni di accusa a carico di boss e gregari dello stesso cartello criminale. Una sorta di estorsione all'interno dello stesso clan, all'insegna di un accordo che non poteva essere accettato da quelli della «vanella grassi»: soldi in cambio del silenzio, soldi di fronte alla minaccia del pentimento.
A ricostruire questo retroscena, l'ormai ex famigerato Joe banana, al secolo Rosario Guarino, che otto anni fa svolgeva il ruolo di boss assieme ad altri soggetti, tra cui l'allora boss Antonio Mennetta.
Ci fu un summit, una decisione che coinvolse anche altri sistemi criminali, tra cui anche il giovanissimo Mariano Riccio, che all'epoca era andato a guidare una retrovia degli scissionisti nell'hinterland napoletano (a ridosso di Melito). Ieri le condanne, il pugno duro, quasi a dispetto della richiesta di indulgenza spedita a mezzo lettera dal 41 bis al giudice di primo grado.
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