«Salvator mundi, il piano per un altro saccheggio»

«Salvator mundi, il piano per un altro saccheggio»
di Leandro Del Gaudio
Domenica 26 Giugno 2022, 10:00
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Un piano per trafugare di nuovo il Salvator Mundi. E per colpire chiese, conventi, scuole: a caccia di quadri, candelabri o arredi sacri e piazzarli al migliore offerente. È la convinzione che emerge sulla banda finita agli arresti per il furto del Salvator Mundi, il quadro di inizio Cinquecento, trafugato un anno fa dalla basilica di San Domenico Maggiore. Un'inchiesta in cui la Procura di Napoli chiede l'aggravamento della condizione degli indagati, battendo su un punto: il carattere mafioso del raid a San Domenico. Ma leggiamo l'appello al Riesame firmato dai pm di Napoli, dopo che il gip aveva scagionato i cinque dall'accusa di aver agito in sintonia con il clan Licciardi.

Secondo la ricostruzione più recente, anche dopo il rinvenimento del quadro, la banda avrebbe confidato nella possibilità di tornare sul luogo del delitto, nella speranza che il reperto venisse collocato ancora nella stanza dei tesori (dove lo avevano rubato), per tentare un nuovo furto. Una convinzione che emerge dall'analisi delle conversazioni di alcuni soggetti, tra cui l'ex custode, che ipotizzano la possibilità di tentare un secondo assalto al Salvator Mundi, con un piano che prevedeva una sola differenza rispetto al primo. Quale? Scrivono i pm, a proposito dell'appello a carico di Tommaso Boscaglia, Domenico De Rosa e di Pasquale Ferrigno (quest'ultimo nel convento come ex custode): «Confidando in una sollecita restituzione al museo Doma (la basilica di San Domenico Maggiore, ndr), questa volta pretendendo di ricevere una quota prima di far prelevare ai suoi amici il dipinto». E non è tutto. C'erano anche altri colpi da mettere in pratica, se solo i tre soggetti (più due presunti ricettatori), non fossero finiti in manette. Ricordate la storia del Salvator Mundi? Un anno fa, il rinvenimento. Grazie a una soffiata e alle indagini della Mobile del primo dirigente Alfredo Fabbrocini, il dipinto viene salvato: era stato affidato a una sorta di custode in un appartamento di Ponticelli. Era stato trasportato dal centro storico di Napoli in un appartamento di periferia, in sella a uno scooter, a dispetto di un valore di svariati milioni di dollari e dello stesso pregio artistico del disegno. Due mesi fa, gli arresti dei cinque presunti responsabii. Finiscono in manette Vincenzo Esposito e Antonio Mauro, entrambi ritenuti soggetti in grado di stabilire solidi rapporti con la camorra cittadina; agli arresti anche Boscaglia, De Rosa e Ferrigno, quest'ultimo per anni uomo di fiducia di quel mondo interno alla basilica.

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Stando alla ricostruzione dei pm Celeste Carrano, Giuseppina Loreto e Antonella Serio, sono due i punti fermi di questa storia: l'aggravante di aver agevolato la camorra napoletana, rivolgendosi a Maria Licciardi per la collocazione del quadro, una volta trafugato; e la volontà di riprovarci, di mettere a segno un nuovo colpo, dopo che la Mobile era riuscita a sequestrare il bene nell'appartamento di Ponticelli.

Seguiamo il primo ragionamento. Difesi, tra gli altri, dal penalista Andrea Fabozzo, i cinque soggetti erano stati scagionati - in sede di udienza di convalida dei fermi - dall'aggravante mafioso. Secondo il gip, non basta rivolgersi alla madrina della camorra (per una mediazione per altro non avvenuta) per bollare la vicenda di una connotazione mafiosa. Diverso quanto si legge nell'appello al Riesame: «Entrambi sono consapevoli dello spessore criminale della Licciardi, del suo ruolo dirigenziale e della capacità di rapportarsi, a sua volta, a un clan temibile e potente. Sono inoltre consapevoli della difficoltà di piazzare un'opera d'arte di quel valore e del pericolo di poter essere scoperti, nonché di essere ostacolati da altri gruppi criminali, dunque si rivolgono al clan Licciardi nel tentativo di massimizzare i guadagni ridurre rischi». 

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