La verità di Tony Colombo​ in carcere dopo le tournée: «Ho dato solo aiuti morali»

E Di Lauro jr: punito per il mio cognome

Tony Colombo
Tony Colombo
Leandro Del Gaudiodi Leandro Del Gaudio
Giovedì 26 Ottobre 2023, 23:46 - Ultimo agg. 27 Ottobre, 17:18
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Canta da 31 anni ed è grazie «a questo amore per la musica» che lo ha portato «a girare il mondo e a incontrare gente», di quelle che sembra di conoscere da una vita, che ti dicono «amore di qua e di là» a cui si risponde «amore mio, ti voglio bene...», anche se non c’è un vero rapporto di conoscenza. Dice di aver studiato musica fin da piccolo, di essere andato al Conservatorio, che la musica è la passione della sua vita. Eccolo Antonino “Tony” Colombo, il cantante finito in cella con l’accusa di aver stretto accordi con il clan di Vincenzo Di Lauro, per la commercializzazione delle magliette griffate Corleone. Un affare, quest’ultimo, che il cantante non dimentica e non rinnega. 

Difeso dai penalisti Carmine Foreste e Paolo Trofino, Tony Colombo non ci sta a venire bollato come camorrista o come artista al servizio della camorra. Dinanzi al gip Della Ragione, il giorno dopo gli arresti, Colombo replica alle accuse che lo tengono in cella a Secondigliano, assieme alla moglie Immacolata Rispoli, ad alcuni imprenditori in odore di camorra, ma anche a Vincenzo Di Lauro, secondogenito del padrino Paolo Di Lauro.

Ma partiamo dalla storia di Tony Colombo, finito in cella per aver messo in piedi un affare finalizzato a creare un capannone in cui fabbricare tabacco da vendere di contrabbando nell’est europeo, ma anche per aver definito accordi con Vincenzo Di Lauro per la distribuzione di magliette griffate Corleone. «Nulla di illegale - ha spiegato il cantante -, ho fatto un investimento con Vincenzo Di Lauro, per la commercializzazione di magliette griffate. Ma si tratta di uno dei miei tanti contatti, in una rete di distribuzione in chiaro, radicata anche in altri punti vendita della città (Colombo si dice pronto a parlare di tutti i punti vendita sul territorio)». E il capannone di tabacco ad Acerra? «Non ne so nulla, ho soltanto aiutato un parente, ma si è trattato di un aiuto morale, nulla più». 
Poi un riferimento a quello che definisce il suo talento principale: «Io mi trovo in questa situazione oggi che è una situazione per me al di fuori di quanto potevo immaginare nella vita.

Ho fatto conservatorio, ho lavorato tantissimo, ho girato mezzo mondo con la musica, non immaginavo che il fatto di essere troppo disponibile mi portava in queste condizioni. Forse ho avuto un modo di vivere aperto, ovunque vado incontro tante persone, forse sono stato troppo disponibile ad aiutare tutti». 

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Decide di affidarsi a una dichiarazione spontanea, invece, Vincenzo Di Lauro. Difeso dal penalista Antonio Abet, il secondogenito del padrino di Secondigliano ricostruisce così la sua posizione: «Per quanto riguarda il traffico di sigarette di contrabbando, sono colpevole, anche se non è stata una cosa finanziata da me, ma da persone straniere, che mi avevano chiesto un appoggio logistico. Faccio l’imprenditore, sin da quando ho preso a gestire i soldi di un indennizzo per l’incidente stradale che vide vittima uno dei miei fratelli. Purtroppo, ogni volta che mi affaccio a una attività economica, le persone con cui tratto mi ricordano che io ho questo cognome, sono un Di Lauro. Più volte ho spiegato che non ho nulla a che spartire con queste dinamiche». 

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