Antimo Caputo da Mergellina a San Giovanni: «Vivo Napoli da turista ma la pizza la faccio io»

Antimo Caputo da Mergellina a San Giovanni: «Vivo Napoli da turista ma la pizza la faccio io»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 15 Aprile 2022, 16:00
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Da Mergellina a San Giovanni a Teduccio e ritorno. Un tragitto sempre uguale che Antimo Caputo ha imparato a conoscere molto bene fin da bambino quando - con papà Carmine - andava al mulino. Lui per divertirsi in bicicletta nei giorni di vacanza dalla scuola, suo padre per lavorare il grano. Mugnai da quattro generazioni i Caputo producono farine che oggi vengono vendute in ogni angolo del globo: dal Giappone agli Stati Uniti, dal Brasile all'Australia, dalla Cina alla Thailandia. L' oro bianco napoletano, lo chiamano così. Un'eredità che i bisnonni di Antimo, oggi alla guida dell'azienda di famiglia, hanno a suo tempo accolto e realizzato di ritorno dagli Stati Uniti. Una bella storia, una volta tanto, di immigrazione al contrario. Perché nel 1924, Carmine e Pasquale Caputo, che nel New Jersey producevano ottimi prodotti di pasticceria, tornarono a Capua per sposare due giovani sorelle.

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Lei invece da Napoli non è mai andato via?
«Neanche per idea.

E dirò di più: non solo ci sto benissimo ma essere nato qui lo ritengo un privilegio».

Addirittura?
«Secondo me lo è, nel bene e nel male. È una città, Napoli, dai grandi contrasti e dalle infinite contraddizioni: crescere in un contesto come questo ci rende tutti un po' unici, capaci di adattarci con facilità a persone e circostanze. L'ho capito fin da piccolo».

In che modo?
«Vivevo tra Mergellina, dove abitavo, e la periferia orientale: il nonno e papà lavoravano a San Giovanni. Due estremi, due realtà opposte che hanno senza dubbio rappresentato i pilastri della mia crescita».

La sua Napoli, insomma.
«Irrinunciabile direi. Insieme con altri pezzi di città dei quali non potrei più fare a meno».

Per esempio?
«Lo so che rischio di apparire un po' scontato ma non fa niente. Penso alla Cappella Sansevero, al museo di Capodimonte, al tesoro di San Gennaro, alla città sotterranea e alle meraviglie che nasconde, a San Gregorio Armeno e San Domenico Maggiore».

Luoghi da (ri)visitare?
«È esattamente ciò che faccio. Ne ho riscoperto la bellezza con mia moglie e le mie figlie. Nel fine settimana, quando è possibile, la nostra passione è andare in giro per monumenti».

Turisti nella vostra città, insomma.
«Niente di meglio. Ogni volta che entro in una chiesa o in un museo, è come se guardassi tutto con occhi diversi. A me capita così. Torno negli stessi posti a distanza di tempo e scopro sempre cose nuove».

Arte e cibo. Il centro storico è rinomato anche per questo.
«Via Tribunali è diventata la strada della pizza per eccellenza: da Sorbillo, pietra miliare, a Michele c'è solo l'imbarazzo della scelta. Per non parlare della Sanità».

Si mangia anche lì?
«Si mangia? Secondo me quel rione è a pieno titolo un vero e proprio distretto gastronomico. I turisti impazziscono».

Infatti resta una tappa doverosa. E non solo per i visitatori.
«Bontà e tradizione ad alto livello per quanto mi riguarda. Dalla pasticceria Poppella alla pizza di Ciro Oliva, tanto per citarne un paio. Come si fa a resistere?».

Impossibile.
«Eccellenze assolute in una zona della città che è in pieno fermento. Anche in questo caso, secondo me, è la forza dei luoghi a rendere uniche attività come queste».

Il famoso modello Sanità.
«Senza dubbio vincente. Un esempio di sviluppo economico e culturale, una scelta di umanità e bellezza che va avanti da anni grazie anche al lavoro instancabile di padre Loffredo».

Dal degrado al recupero di un patrimonio immenso e nascosto. Sta forse pensando alle Catacombe di San Gennaro?
«Non solo. La Sanità è anche il Palazzo dello Spagnolo, la basilica paleocristiana, il cimitero delle Fontanelle e l'ipogeo dei Cristallini che finalmente sta per essere restituito alla città. Resto incantato davanti a tanta bellezza».

Dalla Sanità a San Giovanni a Teduccio.
«La terra del mulino. Buona parte della mia vita l'ho vissuta lì. L'arte bianca di Caputo va avanti da generazioni».

Ma davvero vendete farina pure in Thailandia?
«Copriamo un bel pezzo di mondo. Non dovrei essere io a dirlo, e nemmeno mi va di farmene un vanto, ma le nostre farine hanno la capacità di preservare l'autenticità dei sapori».

A proposito di grano e farina: da un'indagine è venuto fuori che noi consumatori siamo assai ignoranti.
«È così. Meno del 35% conosce la differenza fra grano tenero e grano duro, ma più del 60 sa perfettamente cos'è l'Abs».

Come mai?
«È molto semplice. Quelli che vendono auto spiegano a chi compra la funzione e l'utilità dell'Abs, mentre chi vende cibo non spiega nulla».

Allora dica lei qual è la differenza tra grano tenero e grano duro.
«In estrema sintesi: il primo è evidentemente più morbido e i chicchi sono piccoli e leggeri. Quella farina lì si usa per fare pane, pizze, dolci, biscotti e più in generale prodotti da forno. Ma anche per la pettola, i ravioli, le tagliatelle».

E il grano duro?
«Serve per fare la pasta, quella tipo Gragnano per intenderci. Solo in Puglia e Sicilia con la semola ci impastano anche il pane».

Una curiosità sempre in tema di farina. Quando ha voglia di una pizza dove va?
«A Napoli in linea di massima è buona un po' ovunque. Negli ultimi anni poi sono stati fatti molti passi avanti sia dal punto di vista tecnico che della ricerca degli ingredienti. C'è una giovane scuola di pizzaioli che sta studiando parecchio e con ottimi risultati».

Ma non ha risposto alla domanda.
«Visto che la farina non mi manca, e i pizzaioli sono quasi tutti amici miei, per non far dispiacere nessuno la pizza, senza offesa, me la faccio a casa mia».

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