Coronavirus a Napoli, Siano e la città deserta: «Sembra di camminare in una foto immobile»

Coronavirus a Napoli, Siano e la città deserta: «Sembra di camminare in una foto immobile»
di Gino Giaculli
Sabato 28 Marzo 2020, 14:48
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Un linguaggio di occhi. Di manifesti. Di gesti mentre è tutto fermo. Napoli è ora una fotografia immobile per Sergio Siano. Ma si prova ad andare avanti. 35 anni in strada da fotoreporter, la gran parte dei quali a raccontare Napoli per «Il Mattino». E nei giorni della paura, del silenzio da coronavirus Sergio scatta immagini di una Partenope che «ora vedo nuda, senza frenesia ne racconto per Il Mattino ancor più ferite e bellezze». Sua la firma su libri di foto di Napoli e Maradona, e su volumi di storia, leggende, arte, tradizione e canzone realizzati con Vittorio Del Tufo, Francesco de Core, Pietro Treccagnoli e Federico Vacalebre, nonché autore delle immagini della pagina settimanale del nostro quotidiano, «L'Uovo di Virgilio» realizzata sempre con Del Tufo. Ma Siano oggi vede «qualcosa che non mi sarei mai aspettato». Una lunga tradizione di famiglia, con il papà Mario Siano storico fotoreporter per «Il Mattino», e il fratello Riccardo fotografo per «Repubblica», e nonostante Sergio sia cresciuto «dentro» quella Fotosud con Giacomo «Peppino» Di Laurenzio, Guglielmo Esposito, Mario Siano appunto e Antonio Troncone, agenzia il cui testimone passò poi alla Newfotosud di oggi dove operano i figli dei fotoreporter, con lui, Antonio Di Laurenzio e Renato Esposito e, con loro, Alessandro Garofalo, ora Sergio avverte: «Ho visto di tutto in tanti anni di lavoro, ma queste scene di ora non me le sarei immaginate».
 
 

Perché Siano?
«Penso alla città del colera, le lunghe file per le vaccinazioni. Ricordo mio padre che tornato casa dal lavoro si cambiava subito per l'attenzione verso di noi, ma c'era gente in strada, ora invece, è tutto fermo».

Il fotoreporter come vive tutto questo?
«Io fotografo tutto, voglio raccontare, è un momento unico che, spero, non accada mai più».

Qual è l'immagine?
«Se non passasse ogni tanto un'auto della polizia municipale, sarebbe una foto ferma, è impressionante. Giro per le strade ma mi sembra di camminare dentro una fotografia immobile».

Proviamo a descriverla.
«Silenziosa, niente urla dietro le finestre: è surreale».

Nelle foto vediamo tante mascherine.
«Per esempio quella a largo Baracche di due donne dalla bocca coperta dalla protezione: comunicano attraverso occhi e sguardi la loro paura. Un momento che mi ha colpito molto. Come l'anziana del Pallonetto con la mascherina e un volto che è l'immagine della tristezza, spaventata per la famiglia, aveva gli occhi pieni di lacrime».

Cos'altro ha osservato il fotoreporter?
«All'inizio pensavo che i divieti venissero ignorati, invece vedo che, sostanzialmente, i napoletani li rispettano e vedo, con la paura del virus, anche rispetto e attenzione per chi ti sta o ti abita vicino. O, ancora, l'immagine di uno striscione in un vicolo ai Quartieri Spagnoli: è dedicato a infermieri e medici del mondo, sono definiti eroi».

Non solo tensione, insomma.
«Sì, il fotoreporter ritrae la verità. Bella o brutta che sia. C'è una quotidianità fatta di attenzione e cautela. Camminando per strada, vedo luoghi che conosco bene e che prima erano affollati, rumorosi e ora sono muti. Ma la gente nei vicoli, soprattutto, reagisce: come per esempio la donna che - con la mascherina - non rinuncia a un raggio di sole. Oppure come il pescivendolo di via Speranzella che - come tanti - non si è fermato, ogni mattina porta il pesce da Pozzuoli nonostante i vicoli siano deserti. Al negozio ha esposto persino un polpo gigante vivo, ha sfidato la crisi».

Si prova a reagire pur nel silenzio e nel deserto.
«È nel Dna reagire. Andare avanti. Ma con prudenza. Giorni fa alla Sanità, in via Santa Maria Antesaecula, ho scattato l'immagine di una donna che tornava dalla spesa davanti ad una cappellina dove appare la figura di un incappucciato con un cero. Prima quelle cappelline erano tutte abbandonate. Ai Quartieri Spagnoli ho realizzato la foto di un gruppo di mascherine appese al filo dei panni ad asciugare. E ci sono tante cose che non vanno bene».

Ad esempio?
«Vado spesso in luoghi abbandonati come il cuore di Forcella, nei vicoli, e lì vivono veramente gli ultimi: persone in difficoltà economica, prostitute, rom. Oppure nelle parte alta dei Quartieri Spagnoli, stesso discorso e identico abbandono. Zone in cui erano in pochissimi con le mascherine».

E tutto questo la gente non può vederlo.
«Esatto, il fotoreporter invece sì. E io lo racconto per Il Mattino».

E quando sarà finita?
«Eh..., da tempo avevo in mente di un libro sul silenzio napoletano. Ma il silenzio di adesso è diverso da quanto pensavo. È fatto di altro. A maggior ragione voglio documentare questi giorni in un volume: è importante».

Raccontare la città che ha cambiato volto.
«Cercherò di farla vedere a chi adesso non può, i suoi tesori spesso sono nascosti dalla frenesia: prima si correva troppo ora c'è una pausa forzata, vorrei imparassimo ad avere meno fretta. Partenope è nuda, tutte le sue ferite e le sue bellezze sono lì, ancora più chiare. E tanta è anche la tristezza per quello che sta succedendo».
 
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