Le riforme e la strategia ​del premier

di Mauro Calise
Lunedì 15 Maggio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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A parte le parentesi tecniche di Monti e Draghi, il governo italiano ha funzionato, nel bene e nel male, da centri decisionali politici, piuttosto che istituzionali. Le segreterie di partito durante la Prima repubblica, e le coalizioni dei poli durante la Seconda. Renzi ha rappresentato la prima rilevante eccezione, facendo di Palazzo Chigi – all’apice del suo successo – la sede del proprio potere. Giorgia Meloni è la seconda. Con una importante novità.

Diversamente da Renzi, che doveva guardarsi le spalle da un partito infido, la Premier unisce il controllo politico a quello istituzionale. Ampliandone la sinergia con una strategia comunicativa di alta professionalità e incisività, degna di un presidente americano. Si tratta di una svolta capace, ancor più che i numeri elettorali, di determinare un vero e proprio mutamento del sistema di governo in Italia. Perché mai, in uno scenario siffatto, la Meloni dovrebbe essere interessata a inerpicarsi sul terreno minato delle grandi riforme istituzionali?

Come ha spiegato Angelo Panebianco sul Corriere, l’unico obiettivo plausibile potrebbe essere quello di rafforzare il governo centrale rispetto allo svuotamento degli ultimi decenni. Sia per la svolta autonomista che ha dato – e sempre più darà – risorse e funzioni alle regioni. Sia per il venir meno dei partiti come cinghia di trasmissione e leva decisionale della distribuzione dei fondi tra Roma e i territori. Ma è altamente improbabile che un simile obiettivo possa essere raggiunto attraverso il presidenzialismo o il premierato, ammesso che la Meloni riuscisse nel miracolo di sopravvivere allo scontro frontale con le opposizioni e alle trappole dei propri alleati. Basta guardare alle crescenti difficoltà di Macron, alle continue crisi in Gran Bretagna, e alla scialba prestazione di Scholz, cui il paracadute della sfiducia costruttiva non evita certo di mostrare tutta la sua debolezza.

Nel panorama politico attuale, non è la stabilità – e rigidità – dell’impianto istituzionale la chiave del successo.

Il poco o molto che si può fare nasce da un mix informale di leadership nella propria maggioranza, feeling con l’elettorato, e vantaggiosi rapporti di forza con l’opposizione. Tre fattori di cui la Premier già dispone. A questo punto, è più probabile che l’agenda – ancora in verità alquanto vaga – della riforma dei vertici dello Stato e del Governo appartenga alla categoria mediatica delle armi di distrazione di massa. Una categoria che oggigiorno può comunque avere un ruolo molto importante.

Una volta fatto partire, il carro della Grande Riforma monopolizzerà – come già si è visto negli esordi – l’attenzione di stampa e partiti. La gran parte degli elettori resteranno, probabilmente, alla finestra. Ma il dibattito tra le forze politiche vivrà alti e bassi di tensioni, contrapposizioni, tentativi di mediazione. Uno spettacolo che potrà durare molti mesi, probabilmente anche qualche anno. Difficilmente porterà a risultati concreti di cambiamenti della carta costituzionale. Ma, nel frattempo, consoliderà la centralità della Premier sulla scena, a danno, soprattutto, degli alleati. Rafforzando il feeling coi propri votanti e ampliandolo oltre i confini del centrodestra. 

Dopotutto, come i sondaggi hanno confermato, c’è una maggioranza di italiani che apprezza l’uomo – e, ancor più, la donna – forte al comando. Basta non ingessare troppo il ruolo, evocando i fantasmi del passato. Il segreto del governo forte è di evitare di dirlo ad alta voce.

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