La flessione delle nascite un segnale da recepire

di Francesco Grillo
Lunedì 17 Aprile 2023, 23:45 - Ultimo agg. 18 Aprile, 06:03
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A volte i numeri possono essere più potenti delle parole. È il caso di quelli che descrivono la diminuzione demografica progressiva di uno dei Paesi più importanti del mondo. In Italia, vent’anni fa, nascevano 560mila bambini all’anno; lo scorso anno siamo scesi sotto le 400mila nascite. Sempre nel 2003, morivano 545 mila persone; nel 2022, abbiamo superato i 700mila decessi. Molti parlano di culle vuote; ma, in realtà, aumentano specularmente i funerali e persino la speranza di vita media non sta più crescendo come una volta. 

Rispetto all’inizio del millennio, nascono circa 150mila bambini in meno e muoiono circa 150.000 persone in più. In questi decenni ci ha sostenuto per alcuni anni un’immigrazione mal sopportata, ma ciò sembra non essere più vero. Nel 2030 in Italia vivranno lo stesso numero di persone che registrò il censimento del 1981; nello stesso periodo, nei Paesi che ci sono più simili – Francia, Spagna – il numero di abitanti è aumentato di dodici milioni. Sono questi i numeri – più di quelli sul Pil – che liquidano definitivamente l’illusione di poter continuare ad affrontare con piccoli aggiustamenti, ciò che invece richiede un’idea di Paese che ci restituisca la voglia di vivere.

Uno degli argomenti che maggiormente domina il dibattito politico in Italia, è quello relativo ad un indice di fecondità che è ad un livello (1,25 nati per donna) ampiamente inferiore a quello minimo per stabilizzare la popolazione (2,1); il valore corrente dell’indice, però, non è molto diverso da quello che si registrava in Italia all’inizio del millennio. Ci sono, in realtà, altre due novità più recenti. In primo luogo, la speranza di vita media sta diminuendo (ed è una sorpresa dolorosa, tranne per chi immagina che la questione delle pensioni sia solo di finanza pubblica): nel 2022, a pandemia finita, Istat calcola che la durata della vita si sia accorciata di tre mesi rispetto al 2016. Inoltre, essa si è modificata diversamente nelle diverse aree geografiche del Paese: fino all’inizio degli anni Novanta, nelle regioni meridionali si viveva più a lungo che nel Nord del Paese; oggi a Napoli, la vita dura mediamente tre anni meno che a Trento. In secondo luogo, sta anche diminuendo quello che alcuni ritengono essere uno tsunami minaccioso: il numero di stranieri residenti in Italia è significativamente diminuito nel 2022 rispetto all’anno precedente e gli stessi ragazzi che rischiano la vita per approdare in Sicilia, dichiarano spesso che l’Italia è una tappa intermedia verso la Germania.

Sono almeno tre le cause di un declino che si è trasformato – mentre eravamo impegnati a parlarne in mille convegni – in rischio di scomparsa.

Hanno meno fiducia nel futuro i giovani e non solo quelli italiani. Da queste colonne abbiamo spesso denunciato che sono loro ad aver pagato più che per intero il conto di almeno tre crisi – quella finanziaria del 2007, quella degli spread nel 2012 ed il Covid 19 nel 2020. Dall’inizio del secolo è diminuito di dieci punti il tasso di occupazione tra quelli che hanno tra i 25 e i 34 anni; mentre è cresciuto della stessa percentuale tra gli “usati sicuri” tra 50 e 60. Soffre, poi, maledettamente, la sanità pubblica: il bilancio sulle morti in eccesso rispetto al normale, calcolato dall’’Università di Oxford, dimostra che l’Italia è – tra i grandi Paesi occidentali (G7) - quello che ha sofferto, nel periodo pandemico, il maggior numero di decessi per ogni 100 mila abitanti. Ma la sanità non risente solo di scarsità di risorse: facciamo anche molta fatica, la fa lo stesso Pnrr, a concepire le tecnologie come leva per migliorare la qualità delle cure. Continua, infine, a mancare una politica di immigrazioni mirata: settore per settore, provincia per provincia, bisognerebbe capire di cosa abbiamo bisogno e, persino, formare – in Africa o in Medio Oriente – le risorse da accogliere.

Tre cause che fra di loro si rafforzano. Se diminuisce la speranza di vita media e la fiducia persino sul sistema sanitario, si riduce ulteriormente la propensione a fare figli. E diminuendo il numero di giovani (e non aumentando più quello degli stranieri) vanno in affanno persino gli ospedali (anche se su questo aspetto ci facciamo del male da soli con i numeri chiusi per accedere ai corsi di laurea in Medicina e alle specializzazioni). E, tuttavia, l’errore più grosso è immaginare che quello demografico sia una malattia localizzata da affrontare con cure specifiche (che inesorabilmente diventano palliativi).

Vanno bene gli assegni familiari e, ancora meglio, gli asili. Ma la “bomba demografica” esige di più. Ci chiede una trasformazione complessiva. Politiche economiche diverse che inducano dinamismo; e un modo diverso di essere classe dirigente che cominci dal ribaltare l’idea – sposata da tutti i politici che negli ultimi vent’anni hanno provato a governare un Paese difficile – che le persone siano sostanzialmente consumatori di decisioni che spettano ad altri. Il senso di futuro si riconquista diventandone tutti responsabili.

L’Italia è ancora il Paese più bello del mondo; uno spazio che imprenditori come Elon Musk si stanno preparando ad occupare quando sarà svuotato (e in svendita). Sarebbe sufficiente ricordarci cosa siamo per ritrovare l’energia per sopravvivere ad una crisi grave, perché lenta. Tanto lenta da non accorgerci più che ci stava sgretolando.

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