I costi nascosti
della pandemia

di ​Enrico Del Colle
Venerdì 21 Agosto 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:01
5 Minuti di Lettura
Siamo in piena estate e, nonostante alcune fibrillazioni della politica, il termometro complessivo del Paese registra pochi e non forti sbalzi di temperatura. Sul piano economico e sociale la situazione appare in questo momento come la leopardiana “quiete dopo la tempesta”, in attesa, però, di un autunno dalle imprevedibili implicazioni; anche sul piano sanitario, al di là di qualche assembramento da “sabato del villaggio” oppure di rientri da vacanze trascorse all’estero - che comunque preoccupano un po’ e sollecitano tutti alla massima prudenza e a qualche restrizione comportamentale – non sembrano prefigurarsi all’orizzonte scenari portatori di nuovi lockdown generalizzati. Forse è giunto il momento, quindi, di fare un bilancio, per quanto provvisorio, sulle condizioni attuali del Paese, ma soprattutto sui pesanti costi che sta sopportando a causa della pandemia. Riteniamo interessante questo “esercizio di contabilità” in quanto siamo alla vigilia di due importanti appuntamenti: la nota di aggiornamento del Def (documento che precede la manovra di bilancio 2021) e, nel quadro del Recovery fund, la presentazione dei progetti – corredati da priorità, tempi e costi di esecuzione - al fine di ottenere fin dall’inizio del prossimo anno parte delle risorse europee (un anticipo di circa 20 miliardi). Possiamo dire che la nostra condizione economico-finanziaria è abbastanza evidente alla luce dell’andamento delle principali variabili economiche: verticale caduta del Pil, significativa contrazione dell’occupazione, interi settori produttivi che si trovano in gravi difficoltà e imprese, soprattutto piccole, che hanno chiuso e stentano a riaprire.

Ed ancora: debito pericolosamente giunto ad un livello ritenuto inimmaginabile prima della pandemia); anche la situazione sanitaria è sufficientemente chiara nella sua gravità (più di 250mila contagiati e 35mila decessi). Il “paracadute” indispensabile per impedire un crollo senza via di scampo è costato finora più di 100 miliardi di spesa in deficit, ma tale cifra non ingloba altri costi meno visibili, dal contenuto immateriale, con effetti riscontrabili nel tempo e per questo più difficili da individuare, soprattutto in termini di incidenza. Prendiamo, ad esempio, il settore dell’istruzione che ci vede in forte affanno nei confronti europei e con evidenti disuguaglianze tra le diverse aree del Paese (la quota dei giovani laureati tra i 30 e 34 anni, ad esempio, nel 2019 era pari al 28%, con media Ue del 42%, mentre limitandoci ad un confronto interno, la quota di popolazione tra i 25 e 64 anni con titolo terziario era di poco superiore al 20%, con il Nord al 24% circa ed il Sud a poco più del 15%, fonte Istat): lo sforzo per “equipaggiare” al meglio i nostri ragazzi sul piano culturale e formativo - che, senza pandemia, avremmo dovuto compiere, comunque, per ridurre le distanze interne ed internazionali - ha indubbiamente patito un deciso rallentamento in questi ultimi mesi e ci domandiamo: qual è il costo “invisibile” di tale frenata? In quanto tempo potremo recuperare? Sono domande, queste, che riteniamo di estremo interesse per il futuro delle giovani generazioni e dell’intero Paese, se non altro perché sono mancate conoscenze dai costi “senza corpo” che, però, agiscono in maniera silenziosa e continua e sugli effetti delle quali non appare facile prevederne il peso quantitativo e qualitativo. Non deve essere trascurato poi l’impatto negativo che l’incerto clima di fiducia delle famiglie e dei lavoratori sta avendo sull’economia del Paese: infatti, al di là di piccole fluttuazioni nel breve periodo, l’andamento del fenomeno è sfavorevole ed il riscontro può essere individuato nella contrazione tendenziale dei consumi (e il contestuale aumento dei risparmi), con implicazioni non indifferenti sulla “salute” del Paese, ricordando che i consumi delle famiglie rappresentano più del 60% della ricchezza prodotta. Quanto durerà questo clima di generale “esitazione” che spinge la gente, non solo a non consumare (e a non investire), ma anche a comportamenti impregnati di diffidenza (si pensi alla scarsa utilizzazione dell’App Immuni ed anche all’insufficiente risposta data alla richiesta dell’Istat e del Ministero della Salute di sottoporsi al test sierologico per stimare, tra l’altro, il numero dei contagiati)? Quanto inciderà tutto ciò sull’economia, sulla solidarietà e sulla coesione sociale del Paese? Inoltre, non è mai superfluo dedicare attenzione al nostro gigantesco debito pubblico (abbiamo superato i 2500 miliardi) con il quale le giovani generazioni dovranno fare i conti nei prossimi anni – nel senso che bisognerà piano piano rimborsarlo – e ci chiediamo: con quali motivazioni saranno chiamate a questo difficile impegno e quale sarà il sacrificio non soltanto economico ma anche valoriale? Non mancano naturalmente situazioni analoghe, magari dai contenuti più sfumati, nel sistema medico-sanitario: si pensi all’enorme sforzo psicofisico a cui il personale è stato sottoposto e all’impossibilità (o quasi) di programmare attività ordinarie per le quali ci sono stati non pochi differimenti. Quale sarà il prezzo di tutto ciò? L’insieme di questi elementi ed eventualmente anche di altri, appare degno di impegnative riflessioni critiche - un pensiero critico rappresenta sempre un efficace strumento per migliorare – per affrontare, con una più ponderata conoscenza della realtà, le grandi sfide che ci attendono, la più importante delle quali sarà quella di usare con efficacia e lungimiranza i fondi europei, tenendo ben presente che non si tratta del secondo tempo della partita emergenziale giocata finora – come ha saggiamente rilevato qualche giorno fa il commissario Gentiloni – ma di una partita diversa, finalizzata a far crescere il Paese. Dobbiamo, quindi, uscire al più presto dall’emergenza da coronavirus ed assumere decisioni coraggiose e previdenti, forse con effetti non visibili da subito, ma senz’altro tangibili nel medio e lungo periodo; il rischio che potremmo correre, altrimenti, sarà quello di “trattenere” le persone in uno stato di generale difficoltà, più o meno latente, realizzando “emotivamente” provvedimenti destinati più a riparare i danni che ad indirizzare la crescita. Non dimentichiamoci mai che dietro le situazioni descritte, così come dietro i numeri della pandemia, ci sono le vite di 60 milioni di cittadini e altrettante storie da “raccontare”.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA