Ma la letteratura non sia vittima della nostalgia

di Annalisa De Simone
Domenica 21 Aprile 2024, 07:00
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Differenziandosi da chi scrive assoggettato al ricatto del “tema” – il tema che vende o che posizionerebbe il romanzo in un premio letterario –, e rifugiandosi dal volontarismo – scrivo perché devo scrivere un libro –, senza che ciò coincida con l’urgenza di scandagliare tale inquietudine, strada invece necessaria alla verità che sempre deve essere a servizio della letteratura e che sempre, tuttavia, deve trovare coincidenza con le belle parole che sono la luce del pensiero; la seconda, e cioè: presente, ci ricorda che la nostalgia di un passato letterario popolato dai grandi autori non è utile all’indagine, perché inadeguata alla ricerca di quanto vale oggi, tenuto conto della prolificazione di forme miste e di ibridazioni che dal Novecento in poi, in letteratura, ma anche nella scrittura teatrale, hanno minacciato o reinterpretato il canone.

Come scrive Harold Bloom, già citato nel suo contributo da Andrea Di Consoli: “È una verità lapalissiana che il presente culturale sia insieme un prodotto e una reazione all’anteriorità”. Siamo partiti con l’analisi di Coscia e da due autori in particolare, Domenico Starnone e Antonio Franchini – in verità molto diversi fra loro. Nicola Lagioia ha scritto che entrambi sono “decisamente impastati nella tradizione italiana” e “capaci, quella tradizione, di portarla avanti”. Fabrizio Coscia si è chiesto se fosse sul serio così e ha tratto le sue conclusioni. Il punto evidenziato da Coscia è: “La perdita del legame fra esperienza della realtà e consapevolezza della scrittura.”

E in effetti non si può negare che con la prolificazione di libri pubblicati ogni anno non ci sia in giro parecchia narrativa “midcult”, purtroppo scambiata a volte per letteratura, autori che non si sottraggono a facili strumenti di seduzione, attingendo ad esempio al folclore o a generi che si propongono come obiettivo solo quello di adescare impressionando, come il melò, e che non mostrano la consapevolezza di scrittura di cui parla Coscia.

Quando, tuttavia, Di Consoli mette in guardia dal pericolo, e dall’inutilità, di seguire le orme crociane provando a dettagliare lo statuto normativo della “vera letteratura” coglie un punto essenziale. Assistiamo da anni a un dibattito sterile sull’autofiction e sul memoir, con scrittori che ne rivendicano la legittimità letteraria e detrattori che si interrogano dubbiosi. Anche qui, vale secondo me un solo discrimine e cioè: il “come” – non il “cosa”.

In Blue nights, Joan Didion narra della morte di suo marito avvenuta davanti agli occhi di lei, mentre sua figlia era ricoverata in terapia intensiva; una vicenda realmente accaduta, in cui c’è una prima persona che coincide con chi scrive: “Questo mio libro si intitola Notti azzurre perché all’epoca in cui lo iniziai i miei pensieri erano sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore. Le notti azzurre sono l’opposto della morte del fulgore, ma ne sono anche l’annuncio.” Certamente memoir e certamente letteratura. Si scrive per sé stessi e per gli estranei, si fa letteratura quando a tale slancio segue anche il raggiungimento di fini estetici.

Coscia non ravvede nei libri di Starnone e di Franchini “una qualche verità”, ma solo un “mettersi in posa”, io non sono del suo stesso parere, ma volendo ampliare la dimensione del dibattito oltre i singoli autori che hanno acceso in Coscia la scintilla, credo sia opportuno ribadire quanto avere la pretesa di bollare cosa sia letteratura e cosa no, corra il rischio di farci scivolare in un precipizio, verso il suicidio intellettuale rappresentato da qualsiasi forma di isolamento dal presente.

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