Maradona e lady Diana, due miti solitari

di Francesco Pinto
Sabato 28 Novembre 2020, 23:30 - Ultimo agg. 29 Novembre, 08:00
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Non debbo farmi prendere dall’emozione. Non debbo farmi prendere dall’emozione. Me lo sono ripetuto più volte prima di scrivere. Siamo umani, come il giornalista argentino che, quando ha dovuto annunciare che Maradona non c’era più, è scoppiato a piangere buttando a mare tutto la sua rispettabilità professionale. Siamo umani, ho sentito amici e conoscenti reagire nella stessa maniera, persone che vivono nel mondo della comunicazione abituate alle catastrofi.

Persone che non si sono trattenute quando abbiamo incominciato a telefonarci sperando che la notizia non fosse vera. L’ho fatto anche io. Siamo umani. Solo dopo le lacrime e in mezzo alle macerie cerchiamo di capire cosa sia successo. Guardavo le immagini delle persone, come mio figlio, che portavano fiori, lumini, parole scritte su dei piccoli fogli a quadretti, disegni infantili e altri fatti con le mani di artisti allo stadio, il luogo dove aveva raccontato la sua storia. Erano migliaia non le poche che si affollano nei luoghi di una tragedia per lasciare una preghiera o un gesto di compassione.

Mi sembrava di averle già viste e non ricordavo quando. Poi un bambino, che deponeva un suo piccolo giocattolo, me ne ha fatto venire alla memoria un altro che aveva fatto lo stesso identico gesto un agosto di qualche anno fa quando Diana Spencer morì. Le stesse lacrime, le stesse lunghe file di persone che portavano i loro ricordi nei posti dove era vissuta, persino a Buckingham Palace. Che cosa accomuna queste tragedie planetarie che hanno al centro la morte di due persone “effimere” (scusatemi non è la parola giusta, ma non riesco a trovarne un’altra e la metto per questo tra parentesi) come un ex calciatore e una ex principessa? Li tiene insieme l’immensa carica empatica che possedevano, naturalmente e biologicamente, e cioè la capacita di mettersi nei panni degli altri per sapere cosa questi pensavano e soprattutto sognavano. E la fetta di umanità con la quale entravano in contatto era quella dei sud della società: i meridionali e le donne, i perdenti e i subalterni. Quando sono scomparsi questa essenza, questa specie di magia, è letteralmente esplosa, ha esondato il sistema dei media, li ha praticamente costretti a stravolgere i loro codici e le loro impaginazioni e a raccontare una emozione e non delle notizie. Come tutti gli uragani durerà poco sul terreno dell’informazione e questa emozione tornerà, ben presto, sotto terra ad impregnare il terreno della vita di quel pezzo di mondo, ma lì ci rimarrà a lungo. Avevano un’altra cosa in comune il lazzaro e la principessa: erano esseri fragili. Come in fondo siamo tutti noi. C’è una frase di Maradona che, forse, non è stata colta da tutti nella sua essenza: “se io fossi vestito di bianco ad un matrimonio e arrivasse un pallone infangato non esiterei a stopparlo di petto”. È la confessione che solo in quel rettangolo verde era felice.

Li e solo lì, come Diana nella sua storia d’amore. E invece erano schiacciati dal peso di essere altro perché lo sentivano a pelle la responsabilità in cui erano precipitati come un telepatico che avverte tutti i pensieri degli altri e non trova più i suoi. Erano schiacciati ed infelici e reagivano in modo molto debole, e molto umano: la bulimia per Diana, la cocaina per Diego. Erano soli. Furono odiati: la Spencer da un’intera corte reale, marito compreso, Maradona da tutti i potenti che il miele di questi giorni prova a nascondere. Ma non credo che sia lì il loro dolore e la loro tragedia perché un avversario agguerrito ti spinge a combattere e ad essere forte. Quello che li scacciava era l’altra faccia: l’amore e la responsabilità di corrisponderlo

Vincevano contro chi li odiava, perdevano contro chi li amava

E qui arrivo alla domanda che mi tormenta: non siamo stati, forse, noi i carnefici di Diego? Noi che lo abbiamo considerato un eroe, noi che lo abbiamo trasformato in un mito, noi che gli abbiamo chiesto per intero la sua vita perché era la nostra vita.

Diego, Maradona, el Dies, abbiamo reso felici gli ultimi due e trascinato nel dramma il primo. Lo abbiamo fatto colpendolo nel punto debole, il suo tallone: la generosità. Poteva scegliere di comportarsi come le sue pallide copie e che si aggirano adesso sul rettangolo verde come i Messi o i Ronaldo, algide macchine silenziose fuori dal campo da ammirare per la loro tecnica e non per la loro umanità. Ha scelto un’altra strada: quello del suo rapporto empatico con il suo mondo perché lui aveva bisogno di noi come noi di lui. Era questa la sua droga vera, non la cocaina che, negli anni in cui giocava in Italia, correva a fiumi: se fosse andato a Torino lo avrebbero considerato un semplice professionista, non avrebbe trovato l’empatia che cercava ma molto probabilmente non gli sarebbe mancata quella sostanza bianca che girava in qualche villa importante.

E quando ha smesso di giocare non gli abbiamo lasciato nemmeno un attimo di pace perché era troppo profondo il rapporto che legava lui a noi napoletani e argentini che considerava un unico popolo. Abbiamo fatto come quelle madri che non vogliono mai far andare via il proprio figlio perché lo considerano carne della propria carne e sangue del loro sangue.

Era debole Diego e noi lo abbiamo soffocato in un abbraccio troppo stretto e troppo pieno d’amore. E se lo abbiamo fatto non lo abbiamo fatto apposta.

Perdonaci Diego.

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