Il docufilm Napoli, l’aldilà di tutto girato da Gualtiero Peirce, trasmesso ieri dai Rai 3, nasce dalla irriducibile voglia di continuare a raccontare e far conoscere al mondo il rapporto così intimo che la città ha con l’aldilà e di rendere noti i luoghi-simbolo di questa storia. La vicinanza con l’ingresso agli inferi, le sue cavità, la porosità hanno reso Napoli il posto dove la relazione tra il fuori e dentro, tra alto e basso, tra vita e morte è qualcosa di naturale. È una storia antica, affascinante che si può raccontare sia in chiave mitica, poetica e metaforica, ma che può essere invece anche documentata svelando le più sordide vicende di una Capitale dove la morte e i morti venivano usati come uno strumento di potere, di arricchimento, di rafforzamento di privilegi.
Perché in una città popolosa come Napoli, dove le pestilenze si insinuavano senza ostacoli, i morti erano tanti, troppi e il loro destino, la forma della loro sepoltura erano importanti ed era fondamentale la rappresentazione scenica di questo atto finale. Ma mentre chierici e parroci si contendevano le prerogative delle processioni funebri e delle sepolture, mentre i nobili cercavano un’eternità nei marmi candidi provenienti dalla Toscana, i morti scordati invece, senza nome, senza benedizione, trasportati di notte per le strade malamente avvolti in un lenzuolo - come i piedi del cadavere nelle Sette Opere di Caravaggio fanno immaginare in modo straordinario - andavano a riempire quelle fosse fuori le mura delle città e a popolare quell’esercito di anime pezzentelle che hanno bisogno delle preghiere dei vivi per trovare un posto in paradiso.
I morti che non hanno un sepolcro, proprio quelli che vagano in attesa di una cura, sono quelli che maggiormente alimentano questa meravigliosa relazione tra i napoletani e l’aldilà diventando, prima, destinatari delle preghiere dei vivi e, poi, intermediari per esaudire grazie. Talvolta un vero esercito di morti in aiuto dei vivi: nell’elogio funebre per Carlo Andrea Caracciolo marchese di Torrecuso, morto nel 1646 dopo aver combattuto dal Brasile all’Olanda, si scrive che “I suoi più forti squadroni furono le anime del Purgatorio” che lo soccorrevano con le forze del cielo come nel caso della vittoriosa battaglia di Perpignano prima della quale il Caracciolo aveva fatto celebrare in un’unica giornata, in suffragio delle anime del Purgatorio, 5000 messe. E le anime diventano poi anche dei veri e proprio Lari nelle piccole grotte scavate nei vicoli della città o disposte nelle edicole votive: piccole figure in terracotta che aspettano le preghiere dei vivi pronte poi a dispensare grazie.
Una relazione speciale quella tra il napoletano e l’aldilà che in città, come racconta Peirce attraverso una storia semplice di una madre e una figlia, prende forma in alcuni luoghi simbolo, come il cimitero delle Fontanelle, la chiesa di Santa Luciella e nell’ipogeo della chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco. Luoghi dove si è manifestata la cura per chi non si vede, ma c’è, per quelle anime compagne che aiutano i vivi a trovare le anime da adottare in una vicenda di infinito aiuto reciproco. E sappiamo bene che il culto per le anime del Purgatorio ha anche alimentato l’usura, ha fatto spendere al gioco del Lotto piccole fortune, ha impoverito il popolo che investiva risparmi per accendere i lumini, ma tutto questo non rende meno speciale questo rapporto la cui forza oggi travalica i nostri confini, affascina, coinvolge uomini e donne di altre culture, turisti che, visitando questi luoghi, scrivono pensieri e chiedono grazie diventando così parte di questa reciproca cura. E mi piace citare Igor Pellicciari che in Napoli adagio scrive “nell’Ipogeo, teschi e ossa sono pieni di umanità vissuta e stratificata. Sono lì per abbracciare, non per impaurire. Testimoniano che della morte fisica non bisogna avere paura perché è grazie ad essa che l’anima diventa immortale. In chiesa si va per pregare per i defunti; nell’Ipogeo sono invece i defunti a prendersi cura di noi. Pronti ad accoglierci pazienti e silenziosi, amorevoli come un genitore. Nonostante tutto, nonostante noi stessi”.