Le fiamme di Pistoletto ​e le bombe di Jorit

di Piero Sorrentino
Lunedì 17 Luglio 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:55
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Se la storia dell’arte è anche storia degli artisti – e lo è – questa è stata la settimana di due storie di artisti a Napoli. Si chiamano Michelangelo Pistoletto e Ciro Cerullo, in arte Jorit. Il primo, classe 1933, è uno dei più importanti artisti contemporanei europei, tra i massimi esponenti della cosiddetta “Arte povera”. Il secondo, più giovane di quasi 60 anni, è uno degli street artist figurativi emergenti, noto per i suoi ritratti dalla doppia cicatrice sulle guance. A tutti e due, per quegli strambi palinsesti involontari disegnati dal destino, è toccato essere al centro di due discussioni diverse, ma entrambe accomunate dal medesimo interrogativo: che cosa fa un artista quando non parla d’arte, ma della vita. E tutti e due hanno fornito risposte profondamente diverse, il giudizio finale sulla cui giustezza e onestà intellettuale è lasciato naturalmente a chi sta leggendo.

Pistoletto ha reagito al rogo della sua «Venere degli stracci» in piazza Municipio, nella notte tra l’11 e il 12 luglio scorsi, con una lucidità quasi disarmante. Non ha fatto piagnistei, non ha inveito contro il popolo bue incapace di comprendere la Bellezza e di elevarsi al di sopra della barbarie, non si è scagliato contro l’assenza di valori morali, non ha lanciato accigliati anatemi sul modello classico dell’intellettuale medio italiano, quell’eterno «Signora mia, dove andremo a finire» che avvelena – soprattutto a partire da un modello di malinteso pasolinismo – certa pubblicistica culturale di intervento sull’attualità. Quello di ergersi a coscienza religiosa, politica e morale degli artisti è uno dei tic più insopportabili del Paese, e un giovanotto di 90 anni se n’è tirato fuori con un bellissimo colpo di reni, quando, col fumo degli stracci che ancora si torceva in spirale nell’aria calda del porto cittadino, ha detto che l’opera si sarebbe potuta rifare, che non bisogna attribuire all’arte un potere salvifico sulla società che non ha e che non può avere.

Che il Bello, inoltre, è uno scudo potente col quale, tuttavia, è impossibile vincere tutta la battaglia necessaria per la ricomposizione dei guasti e delle storture di una collettività, che è necessaria la mano sorvegliante della politica, una buona economia, una giustizia sociale. Visto che siamo in tema di abiti: chapeau, signor Pistoletto. 

Jorit s’è messo in viaggio da Napoli per Mariupol, una delle città più devastate dagli attacchi russi dall’inizio dell’invasione, dove il 90 per cento dei palazzi è stato distrutto o danneggiato, concretissime architetture sfregiate che sono anche il simbolo della morte e del dolore. Sul lato di uno di questi condomini bombardati, l’artista di Quarto ha realizzato un dipinto, «di una bambina viva del Donbass», ha spiegato, «che ha vissuto i suoi primi anni nella guerra», con i colori della bandiera russa dipinti nelle iridi e due bombe con la scritta «Nato» ai lati del volto.

Un lavoro documentato con gran precisione sui suoi profili social, nello stesso identico giorno in cui andava in fiamme la Venere di Pistoletto, ma che proprio dai social è stato sottoposto a critiche molto dure, fino a quando è venuto fuori che quella bambina ritratta non è affatto originaria del Donbass, ma la figlia della fotografa australiana Helen Whittle, ritratta dalla donna su una rivista di fotografia con un’espressione particolarmente imbronciata nell’istante esatto in cui la piccola si era resa conto di essere rimasta a corto di latte per la sua zuppa di cereali.

Il che significa non solo due figure, ma anche due contesti – uno tragico e devastato, l’altro tenero e per fortuna placidamente domestico – impossibili anche solo da accostare. In realtà un altro murale, precedente a quello di Jorit – realizzato dall’artista Sasha Korban – esisteva, a Mariupol, e ritraeva una bambina di nome Milana, la cui madre era stata ammazzata dalle bombe russe nel 2015, e lei stessa s’era vista una gamba strappata dall’esplosione. Un murale che i militari russi si erano nel frattempo precipitati a cancellare. Intanto la fotografa australiana ha fatto sapere non solo di dissociarsi totalmente dall’uso fatto della sua fotografia, ma di star chiedendo consiglio ai suoi avvocati sul da farsi. 

In una sua “storia” su Instagram, Jorit sostiene che sì, la bambina è la stessa, e lui ha provveduto a ridisegnare «i capelli e la maglia... la foto aveva la luce coerente con il volto e sono state ridisegnate per un motivo puramente estetico». 

Nessuno sa se e come andrà la faccenda dal punto di vista degli eventuali rispettivi percorsi giudiziari di queste due storie. Tutt’e due, però, forse ci suggeriscono, irradiandosi in contemporanea qui da Napoli, di un certo modo di stare «davanti al dolore degli altri», come avrebbe detto Susan Sontag. A due modi molto diversi di dare forma a esperienze dolorose, quella dell’esclusione e dello svantaggio sociale da un lato, quella della guerra dall’altro. Di rappresentazione del trauma e di reazione alle sofferenze altrui. Di sensibilità e di opportunità di determinati comportamenti, che non si esauriscono solo nel mero gesto artistico di una scultura o di un dipinto. Di come l’arte riesca a dire qualcosa su ciò che ci circonda, sulla sua presa sul mondo. E non a caso tutte e due sono strette da un unico filo rosso chiamato Napoli, saldo come acciaio, la città che riesce da sempre a dare forma e materia all’inesprimibile e a far cadere i veli. 
 

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