La cultura e lo scatto ​d'orgoglio che manca

di Giuseppe Montesano
Giovedì 29 Luglio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 06:03
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Il messaggio che per i suoi ottant’anni Riccardo Muti ha lanciato alla città-mondo si potrebbe riassumere, in maniera forse un po’ partigiana, così: Napoli, riprenditi ciò che è tuo e fanne il giusto uso. Ciò che apparterrebbe alla città-mondo e che essa dovrebbe riprendersi e usare nel giusto modo sarebbe la cultura musicale: ma non solo quella.

Che significa? L’immaginario legato a Napoli e alla sua cultura domina da tempo nel cinema, nella letteratura, nel teatro e nella musica. In questo momento a Venezia ci sono due film, uno di Sorrentino e uno di Martone, uno in cui c’è il mito di Maradona e uno in cui c’è il mito di Scarpetta, e in entrambi recita Toni Servillo; inutile dire che il mondo-Gomorra si stende su molto cinema e su molta letteratura, e in bene e in male si è internazionalizzato; e sono moltissimi gli scrittori che ruotano intorno alla città-mondo, sono moltissimi e molti sono bravi o bravissimi, e in più sono diversi l’uno dall’altro. E si potrebbe andare avanti a lungo con gli esempi, che comprenderebbero poi anche i “luoghi”, da quelli museali unici al mondo per quantità e qualità come l’ex-Archeologico a una città che a ogni passo sui suoi selciati sprigiona Cervantes, Sannazzaro, Stendhal e praticamente tutto e tutti. Ma Muti parla soprattutto della musica che da Napoli ha invaso l’Europa colta, e tocca una questione dolente che spiega perché la cultura nella città-mondo sembra condannata a non “tornare” mai. 

L’immenso patrimonio napoletano, musicale e teatrale e letterario, che va dalla fine del Cinquecento almeno a tutto il Settecento, non vive e prospera nella città-mondo, ma lo fa altrove. Un esempio è quello del gruppo musicale diretto dal maestro Florio, un ensemble che nacque a Napoli, prese il nome dalla Cappella della Pietà de’ Turchini e dovette andare via da Napoli: oggi incide dischi per tutti e per Glossa, un’etichetta spagnola, vive all’estero ed è noto nel mondo. Ma non a Napoli. 

Da almeno due decenni il Veneto pullula di gruppi musicali che eseguono Vivaldi e qualche altro veneziano nei festival internazionali, e li incidono per le più importanti etichette discografiche che vengono a lavorare nel Veneto e dintorni, in chiese e palazzi: bene. Allora forse accade lo stesso per la musica che da Napoli fecondò l’Europa, una musica che da Gesualdo a Pergolesi è infinita per qualità e quantità? No, affatto.

Si studia, si mette in scena e si esegue l’immenso patrimonio napoletano? Be’, lo fanno in tutti i più importanti festival mondiali: ma lo fanno gruppi olandesi, americani, inglesi, francesi, americani eccetera. E poi, tanto per dire: il barocco è forse una delle anime culturali che tra Napoli e Spagna e Portogallo fecondò l’Europa? Sì, certo. Allora forse nella beneamata città-mondo c’è un festival barocco, musicale e letterario e teatrale? No, affatto. Ma allora siamo innamorati della modernità, e quindi nella città-mondo si producono i film su Scarpetta e su Maradona o si pubblicano i Saviano e gli Scurati? No, per niente: non c’è nella città-mondo un’imprenditoria culturale che sia in grado di far produrre lavori e lavoro a scrittori, attori, registi, musicisti eccetera. Sarà il famigerato ritardo storico? Può darsi, ma questo ritardo storico sembra essere eterno: e la storia non è l’eterno, la storia è cambiamento dei presupposti economici, culturali, politici. O no? Singoli coraggiosi sì, quelli ci sono sempre stati e ci sono, nella città-mondo: due anni fa un singolo, lo scrittore e cittadino onorario di Napoli José Vicente Quirante Rives, ha letteralmente costruito per e con il libraio-editore Dante&Descartes la pubblicazione di una poetessa americana, che poi ha vinto il Nobel e giustamente è stata pubblicata dal Saggiatore di Milano: come anni fa, in casi e circostanze diversi, accadde con Don DeLillo pubblicato da Pironti su consiglio di Francesco Durante e poi pubblicato da Einaudi. 

E allora? E allora riportare nella città-mondo la “sua” cultura richiederebbe una governance illuminata che pensasse a costruire in profondità e non dissipasse il denaro in pseudo-eventi mediatici al servizio del potere, richiederebbe una politica che guardasse alla famigerata “cultura” con occhio capace di stare dentro la città-mondo e fuori di essa caso mai guardando all’estero più evoluto: e, ovviamente, richiederebbe una forte imprenditoria culturale visionaria ma efficiente. Insomma, come si può capire guardandosi attorno, probabilmente stiamo solo fantasticando…

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