La violenza sui sanitari e le promesse non mantenute

di Leandro Del Gaudio
Giovedì 10 Marzo 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Non sono arrivate le telecamere sulle ambulanze cittadine (che, in alcune fasce orarie viaggiano senza medici a bordo), né sono stati istituiti i drappelli di polizia tanto invocati nei cosiddetti ospedali di frontiera. Richieste rimaste lettera morta, nonostante i numeri snocciolati ieri mattina, a proposito del brutto clima che si respira dentro e fuori le corsie ospedaliere cittadine, se proviamo a metterci nei panni di medici, infermieri, operatori sanitari, vigilantes.

Numeri freddi, che vale la pena sottolineare, a distanza di due anni dall’inizio della pandemia, in una crisi sanitaria non ancora superata del tutto. In sintesi, solo nel 2021 si sono verificare oltre 60 aggressioni ai danni del personale sanitario e sociosanitario (il 70 per cento delle vittime è costituito da infermieri), a conferma di un record negativo che non ha conosciuto sosta neppure durante i periodi di lockdown, quelli - per intenderci - da zona rossa, causa varianti Covid. Un dato numerico che è stato reso pubblico in occasione dell’incontro promosso dalla Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università Federico II di Napoli in collaborazione con il Dipartimento di Sanità pubblica dell’Ateneo e l’Osservatorio Salute Lavoro, nel corso di un evento che ha una chiara finalità divulgativa: la Giornata nazionale per l’educazione e la prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari, che si celebra - come ogni anno - il 12 marzo. Un problema nazionale, sembra di capire, che trova a Napoli la sua frontiera più avanzata. Sessanta aggressioni nel 2021, una media di cinque al giorno, in un record di casi che - come già accaduto in altre occasioni, sempre qui a Napoli - ha fatto anche registrare episodi luttuosi: ricordate la cronaca di quanto avvenuto ai primi dello scorso giugno, al Cardarelli? 

Siamo nel principale ospedale del Sud, quando dodici persone fanno irruzione nel reparto medicina di urgenza del presidio collinare. Nove donne, tre uomini, tutti decisi a “vendicare” (questa l’espressione usata durante il raid) la morte di una propria parente, che era stata ricoverata poche ore prima al Cardarelli. 

Rabbia ingiustificata, gratuita, bestiale che - oltre a provocare danni all’arredo ospedaliero - impose anche uno stop all’assistenza degli altri pazienti. Ed è in quei maledetti momenti di tensione, che il signor Tammaro da Grumo Nevano ha avuto una crisi respiratoria, che lo ha stroncato dopo una inutile richiesta di aiuto. Morto soffocato, colpito a morte dallo scenario di violenza che aveva imposto a medici e sanitari di arretrare nelle loro stanze, nel disperato tentativo di far partire i soccorsi. Cronaca di violenza quotidiana, su cui si chiede una riflessione in grado di coinvolgere, oltre agli attori istituzionali, anche una larga fetta di opinione pubblica cittadina.

Spiega Maria Triassi, presidente della scuola di Medicina della Federico II: «È molto importante questo momento di riflessione rispetto al rischio di aggressioni e di violenza nei confronti degli operatori sanitari, si tratta di un fenomeno che era già presente prima della pandemia ma che in questi due anni è aumentato.

Occorre pertanto incentivare la formazione e sensibilizzare la cittadinanza, a partire dai giovani, facendo capire che perpetrare aggressioni e atti violenti contro operatori sanitari non solo è grave, inconcepibile e da condannare, ma ci pone davanti a un paradosso perché si pratica violenza contro coloro che sono i responsabili della nostra salute. Un Paese civile - ha aggiunto Triassi - non può accettare che ciò accada». Detto con i poster che campeggiano nel pronto soccorso del Cto (avamposto decisivo, guidato dal primario Mario Guarino), «se tu mi fai sentire in pericolo, come potrò mai curarti?», in un dialogo immaginario (anche se drammaticamente vero) tra una equipe medica e un gruppo di facinorosi all’esterno dell’unità di emergenza.

Ma quello sollevato ieri a Napoli non è solo un problema di formazione, di dialogo e di educazione. È anche e soprattutto un problema di scelte amministrative e di interventi in grado di razionalizzare e di rendere efficiente la macchina dell’emergenza in una metropoli come la nostra. Nessuna intenzione di giustificare l’aggressione a medici e personale sanitario, ma è ovvio che la rete del pronto soccorso debba essere riformata, con un obiettivo chiaro e ineludibile: per garantire condizioni di lavoro decorose ai nostri camici bianchi e per spegnere sul nascere istinti animaleschi da parte di chi - da incivile - si accanisce contro donne e uomini alle prese con la sofferenza del prossimo. Una rete sbilanciata, che attende stretegie e investimenti in grado di decongestionare il Pellegrini (teatro nel 2020 di un assalto armato, che provocò la morte di una donna rimasta senza assistenza), ma anche l’ospedale dei Colli, tra Cardarelli e Cto. Basta una semplice ricognizione all’interno dei padiglioni dell’emergenza, per capire che si è fatto poco in questi anni segnati dalla pandemia. C’è chi attende fino a 48 ore, prima di avere un letto regolare; chi si presenta in ospedale con una frattura, ma preferisce tornare a casa, nella speranza di essere ricevuto il giorno successivo.

Quanto basta ad alimentare un clima di sfiducia verso le istituzioni, che si riverbera ogni giorno contro chi è costretto a fronteggiare ogni giorno rabbia, dolore e disperazione. Ha spiegato Gaetano D’Onofrio, direttore dell’Asl Napoli 3: «Chiediamo il rispetto per gli operatori, che a tutti i livelli offrono la loro professionalità per dare risposte di salute. Aggredire, anche solo intimidire, i sanitari significa avere meno assistenza perché si va a incidere anche sull’aspetto psicologico degli operatori, vuole dire determinare una difficoltà anche per gli altri pazienti, ma soprattutto vuol dire far venire meno quel tessuto sociale che è alla base di ogni consesso civile». Seminari, dibattiti, dunque, ma anche (si spera) strategie efficaci per garantire deterrenza (videocamere) e protezione alla rete dell’emergenza che va avanti ogni giorno, nonostante quei sessanta raid consumati lo scorso anno.  

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