Geolier e le polemiche: «Scrivo il napoletano come lo parlo e rappo e sembra che mi capiscano»

Il cantante risponde alle polemiche social

Geolier
Geolier
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Mercoledì 31 Gennaio 2024, 23:07 - Ultimo agg. 1 Febbraio, 20:00
4 Minuti di Lettura

La notizia bella, soprattutto per uno, come me, che l’anno scorso ha portato al San Carlo un workshop sulla lingua nella canzone napoletana - «Da Di Giacomo a Geolier» era guarda caso il titolo - con l’intervento di linguisti, poeti e cantautori, è che si è aperto un dibattito su come «scrivere» il dialetto newpolitano, quello che si parla, e si canta, oggi, contratto dalla digitazione sugli smartphone e dai tempi precari. La notizia brutta è che lo si è fatto sul tribunale dei social, condannando in contumacia l’innocente Geolier.

Dopo gli applausi per aver riportato il napoletano in gara a Sanremo ti sono toccati gli insulti, Geolier. Appena pubblicato su «Sorrisi e canzoni tv» il testo della tua «I p’me tu p’te» sono fioccate le stroncature. Maurizio de Giovanni, che è anche il presidente del Comitato tecnico scientifico per la tutela della lingua napoletana, è stato perentorio: «È una lingua antica e bellissima, con la quale sono stati scritti capolavori immensi. È un patrimonio comune, ha un suono meraviglioso, non merita questo strazio».
«Sono dispiaciuto. Ripartiamo dall’inizio: mi chiamo Emanuele Palumbo, ho 23 anni e vengo da Secondigliano. Il pezzo di Sanremo l’ho scritto come tutti i miei precedenti».

Sì, ma l’accusa è quella di non aver fatto limare da un esperto il tuo dialetto, non averlo scritto secondo la grafia classica. Angelo Forgione posta: «Vocali sparite, totale assenza di raddoppio fonosintattico delle consonanti, segni di elisione inesistenti, o inventati dove non ci vogliono».
«È il mio dialetto, è il mio rap e... sembra mi capiscano, non solo a Secondigliano, non solo a Napoli, non solo in Campania. Nel mio flow, magari un po’ rionale, le vocali sono poche, le parole vengono triturate per correre veloci, per seguire il ritmo, il flusso. L’hip hop è slang, gergo, linguaggio di strada, anche nello scrivere ne devi rispettare le radici».

Una vera grammatica del napoletano non esiste, essendo lo stesso considerato dai linguisti dialetto e non lingua. Esistono però delle abitudini consolidate, dei classici, dei testi di riferimento. Che tu mandi all’aria: troppe elisioni, poche aferesi e apocopi, troppo gutturale, gergale, rionale, ti accusano. Non meglio identificati neoborbonici hanno «tradotto», per l’occasione i tuoi versi, in «stile antico». «Nuij simm doije stell ca stann precipitann/ T stai vestenn consapevole ca tia spuglia/ pur o’mal c fa ben insiem io e te/ Ciamm sprat e sta p semp insiem io e te» diventerebbe «Nuie simmo ddoie stelle ca stanno cadenno/ te staie vestenno pure sapenno ca t’hê ‘a spuglia’/ Pure ‘o mmale ce fa bene nzieme io e tte/ Ce âmmo sperato ‘e sta pe sempe nzieme io e tte».
«Non è un’altra lingua, ma, di sicuro, è un’altra canzone. Chi legge un testo deve ritrovare quello che ascolta, deve poterlo cantare, rappare. Quando scrivo tutti i miei testi non posso che mettere nero su bianco il napoletano così come lo parlo. Noi l’abbiamo imparato come tutti per strada, in famiglia e parlando tra amici. Ogni lingua si trasforma ed è bello che la mia generazione senta forte il richiamo del dialetto e che si esprima in napoletano tutti i giorni. Il mio obiettivo adesso è salire sul palco dell’Ariston e riuscire a far cantare tutta l’Italia in napoletano».

Consolati, mi segnalano che Chat Gpt capisce benissimo il tuo testo e lo traduce correttamente in italiano, fa solo un po’ di confusione tra prima e seconda persona singolare del congiuntivo.
«Sai perché sono dispiaciuto? Perché credevo di aver fatto una bella cosa per Napoli, speravo di essere un piccolo vanto per la città: artista più venduto del 2023, in gara a Sanremo avendo rifiutato di accettare l’italiano o i sottotitoli mentre canto, primo artista a riempire per tre volte lo stadio di casa».

Forse, sai cosa c’è? Napoli, anzi i napoletani, sono conservatori, almeno a chiacchiere: come la mamma, la pizza non si tocca, Eduardo non si tocca, la lingua non si tocca...
«Ma nel rap game tutto si può. Persino portare a Sanremo il napoletano di Secondigliano».

Quando Modugno cantò «Tu si’ na cosa grande pe’mme» ci fu chi si rizelò perché doveva, invece, dire «cosa gruossa». Quando Pino Daniele scrisse «je so’ pazzo» i soloni della Napoli paese per vecchi lo rimbrottarono: doveva scrivere «i’ so pazzo». Ma era stato il sommo Di Giacomo ad eliminare l’aferesi davanti a «nu» e «na» perché cosciente che il dialetto stava cambiando.
«Mi rincuora, ma davvero non mettete Geolier nella stessa frase con Di Giacomo, Modugno e il Lazzaro Felice: loro sono masti, io nu guagliuncello».