Valentino, il bambino
di 40 anni che tutti
sogniamo di diventare

di ​Marco Ciriello
Sabato 16 Febbraio 2019, 22:24
3 Minuti di Lettura
A quarant’anni continua a giocare con i suoi giocattoli, Valentino Rossi, che è poi quello che vorremmo fare tutti noi, rimanere indisturbati nella nostra stanzetta. Ma prima o poi qualcuno ci tira fuori: un Pallotta o uno Spalletti come è successo a Francesco Totti; perché l’eroe non è più giovane e bello, ma bambino. Dentro. Non vuole responsabilità né rischi o regole, vuole solo fare quello che gli pare. E allora eccolo ValeRossi che continua a girare in moto, che continua a correre, anche se non vince, ci va vicino, e quando ogni tanto qualcuno prova a tirarlo via dalla pista, urla: «Avrei preferenza di no». Il primo fu Flavio Briatore, uno che bimbo non lo è stato mai, gli disse: «Vieni in Formula Uno, smettila con quei giocattoli», ma non ci fu niente da fare, poi Montezemolo e la Ferrari, ma le macchine sono una cosa da adulti, ci si siede non si cavalca, si sterza non ci si piega. Perché ValeRossi è un sogno italiano, quello di correre e fregarsene, sorpassare e non pensarci. Non è un caso se le domande che più ricorrono nei film e nei romanzi italiani di questi anni, sono: «Quando è che si smette di essere bambini, c’è un giorno in cui capisci che è finita?» e «Tu sai il momento in cui è finita la tua giovinezza?», la risposta di ValeRossi è: «Mai», e lo dice mentre rimonta in sella e ammicca al clan di amici che lo ama e sostiene. È l’arcitaliano che Curzio Malaparte avrebbe amato, e non solo per le acrobazie in moto, ma per il suo passare tra due gocce di pioggia senza bagnarsi. ValeRossi sorride, alza le spalle, evade le tasse e le domande, supera, cade, si rialza, e non smette, ed è serissimo solo in pista, proprio come quando i bambini giocano, e questo lo sappiamo da Pasolini e Cortázar. Intanto i Recalcati alla tivù – la versione di minoranza – invocano la maturità, cercando invano di farci ritornare nei ranghi europei, ma come si fa a dire no a uno che ti passa in curva a duecento all’ora e poi accelera ancora? Non si può, perché non si può smettere di avere nostalgia per quello che eravamo – siam stati tutti o quasi scapestrati – poi però abbiam venduto la moto, appeso il casco e preso a camminare, ma in fondo al cuore abbiamo conservato il vento sulla faccia e la bellezza di andare su una ruota sola mentre una donna ci guarda. ValeRossi continua, non si sposa come le vere rockstar, si mette in competizione con ragazzi che han venti anni meno di lui e solo da qualche mese ha tolto il suo poster – l’ultima cosa da guardare prima di addormentarsi –, e dice a quelli che han venduto la moto e continuano a sognarla: che si può sempre ricomprarla e rimettersi in viaggio, che si può sfuggire di lato e cambiare scuderia e famiglia, tornando in pista come se nulla fosse, magari accontentandosi d’essere secondi, terzi, persino quarti, «l’importante è chi il sogno ce l’ha più grande», e il suo è enorme ed ha anche una grossa insegna al neon. È deliberatamente screanzato, con una maleducazione creativa: quella della pista, che poi è la circolarità del tempo, il tornare sempre nello stesso punto a una velocità maggiore, spingendo sempre un po’ di più, aumentando il rischio per vincere la noia. Nei suoi dileggi estetici c’è l’immedesimazione (in questo caso di popolo ed élite, l’amore per ValeRossi va dall’ultimo italiano ad Alessandro Baricco che gli ha dedicato un libro come se fosse una sposa), l’ultimo – ed unico – vitalismo futurista possibile. Per questo i suoi quarant’anni sono i nostri, in opposizione alle mamme che chiamano dai balconi perché la giornata è finita, perché tocca fare i compiti, alzarsi presto, mettere su famiglia e smettere di giocare, sopportare i turni al lavoro aspettando quota cento mentre si prova a non scoraggiarsi e a reagire alla recessione, e infine salutare tutti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA