Guerra in Ucraina, Cremlino diviso: i generali frenano i falchi

Guerra in Ucraina, Cremlino diviso: i generali frenano i falchi
di Giuseppe D'Amato
Sabato 23 Aprile 2022, 23:56 - Ultimo agg. 25 Aprile, 08:35
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Alla fine è sempre uno che decide. E questo uno è Vladimir Putin, che non aveva avvertito manco i suoi più stretti collaboratori dell’inizio dell’“Operazione speciale” in Ucraina. O perlomeno quasi tutti, persino i frequentatori delle “stanze dei bottoni”, erano convinti che non si sarebbe andati oltre ad un’esibizione di muscoli tanto che la Banca centrale russa, ad esempio, non aveva messo in sicurezza le sue riserve, gran parte delle quali sono ora state congelate dall’Occidente. A quanto pare esse ammontano a più di 300 miliardi, che sono pronte per essere usate per la ricostruzione dell’Ucraina del dopoguerra con tanti ringraziamenti del presidente Zelensky e della comunità internazionale.

«Ma il Cremlino ha un piano?» è la domanda che si pongono adesso gli osservatori, mentre la tensione si taglia col coltello negli ambienti che contano. Sono saltate le prime teste: con alcuni generali degli alti comandi licenziati in tronco. O peggio, qualcuno è persino finito in galera a Lefortovo, come il generale Serghej Beseda, capo del Quinto dipartimento dell’Fsb, unità con compiti informativi, voluta da Putin in persona, fiore all’occhiello dei Servizi segreti.

Il problema attuale, a parte la confusione, è che entro il 9 maggio, “giornata sacra” in cui si celebra la vittoria contro il nazi-fascismo, il Cremlino necessita di mostrare al Paese che in Ucraina si è avuta la meglio.

L’obiettivo dichiarato il 24 febbraio era quello di mettere in sicurezza la popolazione del Donbass, anche se invero si è tentato di eliminare Zelensky con la marcia fallita su Kiev.

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Contemporaneamente alla questione del 9 maggio è iniziato con gli occidentali il solito giochetto, sempre di moda nei periodi di turbolenze, dei “falchi” e delle “colombe” all’interno delle “stanze dei bottoni” del potere federale tra fughe in avanti di esperti e voci inverificabili di corridoio, come se le ostilità dovessero finire in quella data. Con la solita abilità di farsi sfuggire notizie un generale del Distretto centrale (che non è manco impegnato in Ucraina) ha comunque rilanciato affermando che i russi vorrebbero portare il “corridoio sud” fino alla Transnistria, allargando il conflitto alla Moldova. Quest’ultima idea è nota agli addetti ai lavori fin dal 2014, quindi nulla di nuovo. E non contenta Mosca ha portato a termine l’esperimento col “Sarmat”, arma intercontinentale a testate multiple, seguendo la tradizione dei lanci intimidatori usata contro l’Occidente nei momenti in cui il Cremlino è in difficoltà.

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Tornando ai “falchi” e alle “colombe”, il vero direttorio che dirige la Russia è il Consiglio di Sicurezza, dove, a parte il ministro della Difesa Shojgu e l’ex presidente Medvedev, sono soltanto i cosiddetti “siloviki” – tutti pietroburghesi, amici di lunga data di Putin con uguale passato nei servizi di intelligence – ad avere influenza sul capo del Cremlino. Prendendo come metro di giudizio le ultime dichiarazioni pubbliche e il carattere fin qui mostrato, si possono inserire tra i “falchi” i “duri” Nikolaj Patrushev, Aleksandr Bortnikov e Serghej Ivanov, tutti e tre già direttori dell’Fsb, l’ex Kgb. Sulla stessa linea vi è anche Dmitrij Medvedev che sta tentando di recuperare visibilità mediatica, appoggiando in toto l’“Operazione”, nonostante durante la sua presidenza (usata per aggirare il vincolo costituzionale dei due mandati di Putin – 2000-2008) avesse evidenziato posizioni liberali e pro-occidentali. Chi, invece, è indicato come una “colomba” è Serghej Naryshkin, capo dell’Svr, la potentissima intelligence all’estero, “uomo” di estrema fiducia di Putin, installato al Cremlino a controllare Medvedev negli anni della presidenza dell’allora “delfino” (2008-2012). Proprio Naryshkin, che all’Svr ha preso il posto addirittura dell’ex premier Fradkov, ha espresso pubblicamente i dubbi più forti tra le élite sugli eventi ucraini. L’indeciso è il ministro della Difesa Serghej Shojgu, un “genio” dell’organizzazione, il classico brav’uomo, che all’apparenza deve essere anche discreto e particolarmente disponibile ad ascoltare un suo superiore. Sebbene sia dopo Putin la seconda persona più popolare di Russia, la mancata vittoria in tre giorni gli sta nuocendo. Su di lui, che è un civile e un ingegnere di studi, il punto di vista di maggiore effetto sarà quello del generale Valerij Gerasimov, il capo di Stato maggiore (anch’egli nel Consiglio di Sicurezza e detentore dei codici nucleari insieme a Putin e a Shojgu), e del generale Aleksandr Dvornikov, da pochi giorni comandante delle operazioni in Ucraina. Gerasimov e Dvornikov sono due militari: il loro giudizio tecnico sulle possibilità di proseguire le ostilità e vincere dipenderà dalla situazione sul campo. 

In questa situazione, in cui la Russia – stando all’idea di Putin – si gioca il futuro di potenza mondiale nel XXI secolo gli oligarchi e i grandi dirigenti delle aziende di Stato sono fuori gioco. L’ultimo magnate che ha provato a mettere il becco in politica è Michail Khodorkovskij, nel 2003 “uomo più ricco” di Russia, finito per 10 anni a cucire guanti in prigioni del nord, oggi in esilio in Gran Bretagna. 

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