È «crisi». Anzi no.
È così che Joe Biden definisce la situazione dei migranti al confine col Messico.
Ma il suo stesso staff non ci sta, e allora lo smentisce.
Le parole hanno un peso e il team della Casa Bianca vuole essere “esteticamente” più prudente, in modo da non prestare il fianco ai repubblicani e in particolare ai filo-trumpiani che da tempo hanno elevato la lotta all’immigrazione a loro cavallo di battaglia.
Certo è che l’imbarazzo è grande.
Perché i numeri in generale sono altissimi, perché quello dei rifugiati che l’attuale amministrazione è disposta ad accogliere sono già quasi saturi, perché funzionari e addetti alla comunicazione contraddicono il loro stesso Commander in Chief, richiamandolo persino all’ordine.
Forse una leggerezza di Biden, cui il termine «crisi» scappa in una dichiarazione rilasciata a margine di una partita di golf nella sua Wilmington.
Forse un (tentato) gioco di prestigio del suo ufficio stampa, secondo cui il riferimento era per la situazione dell’America Centrale e del cosiddetto “Triangolo del Nord” (Messico, Guatemala e Honduras, ndr) e non per la risposta più o meno mancata del governo federale.
Al di là della polemica, però, restano i fatti, le date e soprattutto i numeri:
Biden ha giurato il 20 gennaio, a febbraio sono stati intercettati 100mila migranti, a febbraio 172mila.
Con l’aggravante di una percentuale di minori non accompagnati che per larghi tratti fa spavento.
Che sia crisi oppure no, ai famosi posteri la proverbiale ardua sentenza.
È comunque finita l’era in cui di tutto si poteva dare la colpa a Trump.