«You are fired!», via anche Scaramucci: tutti gli uomini del presidente... licenziati

«You are fired!», via anche Scaramucci: tutti gli uomini del presidente... licenziati
di Luca Marfé
Martedì 1 Agosto 2017, 08:34 - Ultimo agg. 19:59
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NEW YORK - «You are fired!», sei licenziato! Uno slogan orecchiabile, una sorta di marchio di fabbrica che sintetizza alla perfezione il Donald Trump di ieri, agitato e scomposto mattatore della trasmissione televisiva The Apprentice, e pure quello di oggi, se possibile ancor più bizzarro e sconclusionato presidente degli Stati Uniti d’America.

Un Paese del tutto nuovo, ma di colpo vecchio, nel quale non è più molto chiara la linea di confine tra reality show e politica.

E così, al già vasto mosaico dei volti allontanati dal tycoon, si aggiunge un nuovo tassello, quello di Anthony Scaramucci.

La sua vicenda è al tempo stesso incredibile e banale.

Cresciuto nel mondo dell’alta finanza e delle banche tra le discusse e discutibili mura di Goldman Sachs, “The Mooch”, questo il suo soprannome alle latitudini statunitensi, si è reso protagonista di una carriera folgorante senza aver tuttavia mai avuto nulla a che fare con la sfera della comunicazione. Comunicazione che invece è entrata con prepotenza a far parte del suo curriculum grazie alla nomina dell’amico Trump che lo ha voluto, nell’era dei social network a lui tanto cari, al vertice di uno dei settori più importanti della Casa Bianca.

L’incredibile è da ricercarsi non soltanto nella totale assenza di esperienza, ma anche e soprattutto nella durata del suo incarico: formalmente 10 giorni, di fatto una sola settimana.

Una sorta di record negativo che evidenzia parallelamente altresì il lato banale di tutta questa storia.

Scaramucci, infatti, è “inciampato” in un corrispondente del New Yorker con il quale, pensando di chiacchierare in forma del tutto innocua e privata, si è lasciato andare a uno sfogo infarcito di volgarità e affermazioni velenose, a danno peraltro di illustri colleghi dell’attuale amministrazione.

La pubblicazione della telefonata, con tanto di nomi e cognomi dei destinatari delle rabbiose invettive, ha scatenato un pandemonio, mediatico e non, che non poteva che spingere Trump verso l’unica conclusione possibile di questa breve e sguaiata vicenda: il licenziamento, questa volta oggettivamente sacrosanto, dello stesso Scaramucci.

Considerate le polemiche montate attorno alla sua figura nonché le timide scuse apparse ai più assai poco convinte e altrettanto poco convincenti, sarebbe stato un grosso errore tenerlo ancora a bordo. La leggerezza più grave, semmai, si è rivelata a monte l’idea di imbarcarlo.

L’innesto del banchiere italo-americano, che tra le altre cose avrebbe potuto fare comodo proprio alla diplomazia ed alle imprese italiane in virtù delle radici comuni, era nato da un rimescolamento delle carte voluto dal presidente, con l’ex portavoce Sean Spicer costretto alle dimissioni soltanto pochi giorni fa.

Altra vittima predestinata nel suo ruolo di “parafulmine”, scosso, da un lato, dagli agguerriti mastini del giornalismo a stelle e strisce e, dall’altro, dalle ire dello stesso Trump.

Il tutto in un quadro nell’ambito del quale non si capisce bene quale sia la strategia di comunicazione della nuova Casa Bianca. Ammesso e non concesso che ce ne sia una.

Casa Bianca che, tra Russia, Cina, Corea del Nord, Medio Oriente, Nordafrica, senza contare le grane interne rappresentate da riforma sanitaria e fiscale, avrebbe un gran bisogno di assomigliare ad una stanza silenziosa nel mezzo della quale potersi concentrare. E che diviene, invece, sempre più simile ad un’arena di frastuono capace di confondere e di rendersi controproducente, se non addirittura pericolosa.

Non solo Scaramucci e Spicer: tutti i «Sei licenziato!» di Donald Trump



Ad ogni modo, caos ed improvvisazione la fanno da padrone ben al di là di Scaramucci e Spicer. La girandola di chi viene e chi va, infatti, sembra non conoscere pause e l’elenco dei personaggi silurati si allunga di mese in mese.

Il denominatore comune è sempre lo stesso: la (mancata) fedeltà assoluta nei confronti del presidente.

E così a gennaio, via Sally Yates, ministro ad interim della Giustizia, ritenuta colpevole non soltanto di essere in orbita Obama, ma ancor di più di voler ostacolare il tormentato bando posto in essere contro gli allora sette, divenuti poi sei, Paesi a maggioranza musulmana.

Dopodiché è stato il turno di Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale con un certo debole per i russi con cui aveva inizialmente negato qualsiasi contatto, per poi crollare tra le sue bugie in un’ammissione che lo ha reso indifendibile.

E invece a difenderlo, almeno per un attimo, era stato proprio Trump chiedendo ad un altro dei suoi di chiudere un occhio, di lasciar in pace Flynn, considerato dallo stesso presidente un «bravo ragazzo». Destinatario della preghiera l’ex direttore dell’Fbi James Comey, ex perché appunto allontanato a causa del suo voler andare fino in fondo alla faccenda del Russiagate.

Uno strappo clamoroso, quello tra Casa Bianca ed Fbi, capace di evidenziare in maniera lampante metodo e maniere del tycoon, per l’appunto più simili a quelle del presentatore televisivo che non dello statista che evidentemente non è.

Ultimo della lista, altro pezzo da novanta di Washington: Reince Priebus, capo dello staff di una squadra che continua a perdere pezzi.

Con Rex Tillerson che per il momento resta a guardare, ma che, secondo fonti molto vicine agli ambienti istituzionali statunitensi, potrebbe spiazzare tutti con delle dimissioni a sorpresa che farebbero davvero vacillare tenuta e futuro di questa presidenza.

Trump non sembra turbato, però, se non dall’idea di poter essere in qualche modo oscurato da uno dei tanti personaggi di questa saga, effettivamente più consona agli pseudo drammi della televisione che non ai salotti della politica.

Perché nella sua ottica, nel suo modo di vedere le cose, l’unica stella degna di brillare nel firmamento americano è solo e soltanto la sua.

Resta da capire quanto a lungo, e soprattutto se, sarà in grado di continuare a farlo.

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