Elezioni amministrative 2021, chi ha vinto e chi ha perso: ecco le pagelle dei leader

Elezioni amministrative 2021, chi ha vinto e chi ha perso: ecco le pagelle dei leader
di Massimo Adinolfi
Mercoledì 6 Ottobre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 7 Ottobre, 07:14
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Un voto amministrativo e più di una trama politica. Che si irrobustisce o si sfilaccia in questo o in quel punto. 

Il centrodestra entra in fibrillazione: Salvini non trova più la quadra e si agita, mentre la Meloni aspetta di regolare i conti dopo il ballottaggio di Roma. 

Il centrosinistra trova nuova fiducia: Letta consolida la sua leadership, mentre i Cinque Stelle rimpiccioliscono a vista d’occhio e Conte deve ripartire da zero, o quasi. In termini assoluti, la strada da fare per il Pd è ancora molta, ma intanto fa il pieno nelle grandi città. E poi Berlusconi, Calenda, Renzi: di succo da queste amministrative se ne spreme molto. Vediamo. 

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Enrico Letta 

Il vincitore del D-day un po’ meno al Sud

Enrico Letta ha vinto. Eccome se ha vinto. Ha vinto le suppletive a Siena, e così può completare il suo rientro nel gran gioco della politica italiana, sedendo in Parlamento e provando a dare le carte nell’elezione al Quirinale. Ma ha vinto anche, e con larghezza, nella sfida amministrativa: tre sindaci passano con larghezza al primo turno e nelle rimanenti due grandi città, Roma e Torino, Gualtieri e Lo Russo hanno ottime chances al ballottaggio. E le percentuali del Pd a Milano, Torino e Bologna, oltre il 30%, perfezionano il quadro. Nel Mezzogiorno la situazione è un po’ meno rosea, per il partito: la vittoria di Manfredi è merito di una candidatura indovinata, e di un rassemblement molto largo, ma il Pd al Sud ha ancora molta strada da fare. Intanto, Letta è felice e vincente

Matteo Renzi 

La partita del Quirinale lo sfondo dell’ex premier

Il leader di Italia Viva ha insistito sulla «sconfitta letale» dei Cinque Stelle. Poi, certo, ha vantato per il suo partito un risultato superiore alle aspettative, anzi: «incredibilmente superiore», ma il punto è sembrato un altro, quello di mettere il partito democratico di fronte a una scelta decisiva: o con i CinqueStelle, o con i riformisti. E la sconfitta letale dei primi dovrebbe dimostrare a Letta che la scelta è già stata indicata dagli elettori. Il segretario del Pd, per la verità, non ci pensa nemmeno, a scegliere: preferisce mediare e tenere tutto insieme, ma Renzi si può star sicuri che non perderà occasione per rinnovare l’aut-aut. Forse già a partire dalla prossime elezioni: dico quelle del Presidente della Repubblica. Quanto ai voti effettivamente presi, direi benino, non molto di più. Ma Renzi non rinuncia certo al suo tono combattivo

Carlo Calenda 

Dopo Roma la strada di un rassemblement

Una notevole affermazione personale: arrivare con un’unica lista davanti alla sindaca uscente non era scontato. Calenda ha preso al centrodestra i voti di quanti non erano convinti da Michetti, e al centrosinistra quelli di chi trovava d’intralcio la continuità di Gualtieri con le passate stagioni del Pd. Non è bastato ad arrivare al ballottaggio e lui se ne è detto dispiaciuto, ma il nodo da sciogliere è ora: che fare, di un simile consenso? Calenda ha già dichiarato che esprimerà la sua preferenza a titolo personale. Ma resta l’obiettivo più ambizioso, nel medio-lungo periodo: la costruzione di un rassemblement riformista nazionale. Calenda vorrebbe usare il voto di domenica per realizzare un’operazione non semplice, visti i galletti che beccano nel pollaio del centro, e vista la difficoltà di sottrarre il Paese a una partitura bipolarista. Pensieroso

Giuseppe Conte 

Il nuovo corso M5S e i voti spariti nel nulla

La valutazione del risultato dei Cinque Stelle dovrebbe andare oltre il dibattito: merito di Conte/colpa di Conte. È ovvio che si affretti a dire che lui ci ha messo la faccia, ma che tuttavia il nuovo corso non può essere giudicato da questo primo voto. Ma è altrettanto ovvio che, alla fine, contino i numeri: finire sotto il 3% a Milano, ma anche al 9,7% a Napoli è un risultato difficile da mandar giù. Da soli, i Cinque Stelle hanno la consistenza del cespuglio; in alleanza col Pd, non sono mai determinanti. Una débacle. Alla quale vanno aggiunte le spine politiche. Perché l’unica linea Maginot che, se non ha resistito, almeno non è stata travolta, è quella tracciata da Virginia Raggi. Ma la Raggi non è certo la più accomodante rispetto alla strategia di alleanze di Conte. Le cui aspettative escono assai ridimensionate: bastonato

Silvio Berlusconi 

Il Cavaliere detta la linea ma resta tra il 5 e il 9%

Succede che a volte si vincano le partite più difficili con un golletto di vantaggio. Il Cavaliere lo ha segnato in Calabria, dove Occhiuto ha superato il 54% e Forza Italia è il primo partito, con il doppio dei consensi di Lega e Fratelli d’Italia. Per il resto si è difesa bene, facendo a tutti rimpiangere il tempo il cui era Silvio a guidare il centrodestra. Lo ha riconosciuto persino Enrico Letta: al centrodestra manca chi svolga il ruolo di federatore, come in passato ha saputo fare Berlusconi. Il quale ora prova a dettare la linea, anzitutto alla Lega: basta polemiche, col sovranismo, con lo scetticismo su vaccini e Green Pass, coi distinguo al governo. Dopodiché bisogna pur dire che le percentuali, oscillando in genere tra il 5% e il 9%, fugano il timore dell’irrilevanza, ma non consentono di dire molto di più di questo: chi si contenta gode. E dunque: contento

Matteo Salvini 

Due piedi in una scarpa al governo e con Giorgia

Il segretario della Lega esce male dal voto. Non è solo questione di numeri, di sindaci che vanno al centrosinistra e di una curva di consensi che imbocca la parabola discendente, dopo il trionfo delle Europee. È la prospettiva politica che è parsa inadeguata: gli elettori se ne sono accorti e lo hanno punito. Da un lato sta al governo, ma non tanto da far campagna rivendicando le scelte dell’esecutivo; dall’altro, si impegna in un problematico «paso doble» con la Meloni, cercando di indovinarne o precederne le mosse, in realtà finendo col pestarsi i piedi. Si sono scelte tardi i candidati sindaci, ha detto Salvini a urne ormai chiuse. Ma il ritardo non è stato mica frutto di distrazione, bensì di una competizione strisciante con Fdi che ha finito col bruciare tempo e candidature. E intanto nella Lega serpeggiano i malumori, e il Segretario sta lì tutto: ingrugnito

Giorgia Meloni 

L’incognita ballottaggio peserà sul futuro Fdi

Fratelli d’Italia ha la prova d’appello fissata a Roma con il turno di ballottaggio: il discorso sulla Meloni cambia a seconda del risultato di Michetti. Perché Michetti è stato scelto dalla Meloni, in una città dove il centrodestra era dato parecchio avanti: perdere la Capitale sarebbe una brutta botta. A guardar bene il centrodestra ha giocato malaccortamente, ma in termini stretti di numeri Fdi non è andata male e anzi può fregiarsi del titolo di primo partito. L’opinione pubblica – anche quella centrista e moderata – ha qualche resistenza all’idea che possa essere la Meloni a rappresentare l’Italia, cosa che in astratto potrebbe accadere, con le prossime politiche. Per questo, il nodo Roma è cruciale: serve a mettere sul piatto , e con forza, le ambizioni non nascoste della leader. E farle digerire anche ai partner della coalizione. Perciò è: tra color che son sospesi

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