Iran-Usa, l'ex ministro Terzi:
«Di Maio, attivismo senza strategia»

Iran-Usa, l'ex ministro Terzi: «Di Maio, attivismo senza strategia»
di Luca Marfé
Giovedì 9 Gennaio 2020, 10:24 - Ultimo agg. 14:01
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Con uno scacchiere internazionale in fiamme, l'Italia incassa il no secco, improvviso e inaspettato di Al Serraj. Da ex ministro a ministro, come valuta Giulio Terzi il lavoro di Luigi Di Maio?
«C'è adesso questa sorta di iperattività del ministro degli Esteri. Vorrei dire finalmente perché purtroppo, fino a tre giorni fa, l'Italia è rimasta alla finestra riguardo alla Libia. Basti dire che a inizio dicembre a Roma c'è stata la conferenza sul Mediterraneo, con la partecipazione turca, di Al Serraj e degli inviati di Tripoli, ma nelle stesse ore proprio Erdogan e Al Serraj stavano concludendo il famoso memorandum per la spartizione delle zone di sfruttamento economico del Mediterraneo e nessuno, né da parte turca né da parte del governo di Tripoli, si è degnato di informare funzionari e autorità del governo di Roma che era in corso, alle nostre spalle, questa iniziativa. Una cosa veramente strana. O meglio: inaccettabile. Specie se si pensa che ci sono in gioco risorse petrolifere, nonché possibilità di trasferimento di petrolio e di gas, molto rilevanti. Anche in chiave prevenzione di eventuali crisi, il fatto che l'Italia non venisse messa al corrente di un fatto di questo tipo era davvero curioso. Poi ancora la recente delusione attorno al ministro Di Maio che non ha potuto effettuare la sua visita a Tripoli con gli altri ministri europei e adesso lo smacco del vertice a Palazzo Chigi con la defezione dell'ultima ora di Al Serraj».
 


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Libia a parte, in Medio Oriente è delirio. Che cosa sta succedendo?
«Quando si ha a che fare con un Paese come l'Iran, ovvero con una teocrazia religiosa che alcuni definiscono islamo-fascismo, che ha una visione messianica del mondo e che ritiene che il martirio sia la massima ambizione di tutti i suoi cittadini, sì, c'è da essere molto preoccupati».

C'è da avere paura?
«Sì. Anche e soprattutto per ciò che è avvenuto in questi 40 anni di khomeinismo in un Paese che, anziché trasformarsi nella direzione di democrazia, riforme e concessione di un minimo di libertà al suo popolo, si trasforma nella direzione opposta, dittatoriale».

Perché uccidere Soleimani?
«Soleimani, è stato colpito perché era un esponente estremamente importante per il regime. Il generale aveva anche delle responsabilità precise nel mantenimento dell'ordine pubblico: durante la sollevazione popolare che dura da un paio di anni, ma che si è intensificata molto negli ultimi due mesi, Khamenei aveva detto ai suoi principali collaboratori fate tutto quello che è necessario per far cessare quello che sta avvenendo, reprimete senza limitazione. Così, il generale in 54 giorni si è reso responsabile di 1500 morti accertati in Iran in oltre 200 città e villaggi contro gente che manifestava per la strada, gente sulla quale i cecchini sparavano dai tetti, trucidati con le camionette, facendo delle retate e compiendo orrori di ogni genere».

È eccessivo il timore di una terza guerra mondiale?
«L'improbabilità che ci sia una terza guerra mondiale dipende dalla capacità di calcolo dei leader. Tuttavia, esiste sempre una consapevolezza di sopravvivenza dalla quale nessuno può prescindere, neanche chi si vuole immolare per andare nel paradiso di Maometto. Tenderei quindi a fare un minimo di affidamento su quello che è lo spirito di conservazione degli stessi leader».

Tornando alla sfuriata dei missili: c'è la possibilità che si tratti di pura propaganda del regime iraniano, come a voler mostrare di aver vendicato la morte del suo generale?
«È stata un'azione molto grave, proprio perché denota il dogmatismo assoluto dei leader iraniani di non volere neanche prendere in considerazione il fatto che erano già al culmine di una scalata regionale di violenza. Denota un'arroganza estrema e una capacità di valutazione molto scarsa. Sul fatto che abbiano voluto realmente mietere vittime fra i militari e quindi determinare una situazione di non ritorno anche per la Casa Bianca che avrebbe dovuto contro reagire a un attacco di questo tipo e farsi trascinare in una spirale fuori controllo, be', di questo si può senz'altro dubitare».

Lei crede che l'Italia nelle caselle chiave e in particolare alla Farnesina abbia in questo momento persone all'altezza di una situazione così complessa?
«Su tutti i temi di politica estera, Di Maio ha offerto un'immagine di concentrazione non adeguata alla qualità e alla portata delle sfide che il nostro Paese sta affrontando. Questo fino a una settimana fa. Proprio negli ultimi giorni, sembra essersi determinata una situazione più favorevole per lui, per la sua immagine, per l'immagine dell'Italia, nel senso che fa una certa mostra di attivismo. Attivismo non vuole ancora dire profondità di azione. Questa si matura con dei riferimenti chiari, con delle strategie realistiche basate su principi, convenienze politiche, e ritorni. Sull'interesse nazionale, insomma. A me farebbe piacere sentire dal ministro degli Esteri una frase comprensibile su Hezbollah a Kirkuk, sulla eliminazione del generale Soleimani e sul rapporto con l'Iran. Il comunicato della Farnesina, nel quale si diceva Siamo preoccupati dell'aggravarsi della situazione in Medio Oriente e nel quale si menzionavano il dialogo, la pace e la sicurezza, poteva adattarsi a qualunque scenario: Corea del Nord, Libia, Sudan, eccetera. Andava bene, cioè, per qualsiasi cosa, quindi per niente. Ecco: non è così che ci si vede riconosciuta, non dico la leadership, ma neanche l'ombra della credibilità».
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