La secessione del Nord colpo mortale alla ripresa

di ​Gianfranco Viesti
Lunedì 17 Dicembre 2018, 11:21
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Una delle eredità più tossiche della grande crisi, da cui il nostro Paese stenta ancora molto ad uscire, è il consolidarsi di rancori ed egoismi. Fasce della società italiana e delle sue classi dirigenti sono convinte che le colpe delle difficoltà siano degli «altri», e sono determinate a curare esclusivamente i «propri» interessi. Dalla crisi è uscito molto indebolito il senso di unità nazionale, per quanto si parli di sovranismo; e l’interesse per i beni comuni nazionali. Si è indebolita l’idea che l’Italia possa uscire dalla crisi tutta insieme, come un grande Paese; mobilitando, anche con opportune politiche pubbliche, tutte le risorse di cui dispone; rafforzando tutte le sue città e tutti i suoi territori; stimolando il contributo di tutti i suoi cittadini. Assai forte è invece la voce, e l’azione, di quanti lottano perché siano prioritarie le proprie esigenze, anche a danno degli altri.

Una delle proposte politiche più pericolose in questo senso è la «secessione dei ricchi del Nord». Il riferimento è alle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna di acquisire competenze e risorse molto maggiori, spostandole dal livello statale a quello regionale. Di maggiore autonomia regionale si può naturalmente discutere; è un processo che presenta pro e contro, a seconda delle materie di cui si discute e delle conseguenze che il loro trasferimento ad alcune regioni può comportare per i grandi servizi pubblici e il benessere di tutti i cittadini. 

È proprio da questi punti di vista che la proposta attualmente in discussione si configura come una secessione del ricco Nord. In primo luogo perché stabilisce che i cittadini delle regioni più ricche hanno diritto a maggiori servizi pubblici rispetto agli altri (come conseguenza di un nuovo meccanismo di finanziamento, che quantificherebbe le risorse necessarie per i servizi trasferiti anche in relazione al gettito fiscale regionale). Il che, per date risorse pubbliche complessive, significa ridurre le disponibilità per gli altri. Poi, perché non è relativa a specifici ambiti, ma riguarda tutti le 23 materie per cui il processo è teoricamente possibile. Si spazia così dalla sanità (eliminando le basi stesse del servizio sanitario nazionale) alla scuola, su cui è molto incisiva: Lombardia e Veneto chiedono infatti di passare ad una scuola regionalizzata, in cui le Regioni assumono i docenti e ne stabiliscono salari e condizioni contrattuali e intervengono sulla programmazione. Si chiude la scuola pubblica nazionale. Si reclama un vero e proprio potere d’interdizione sulle grandi infrastrutture (su cui, curiosamente, non si è sentita neanche una voce dei sostenitori delle «grandi opere»); vaste competenze esclusive, dai beni culturali alla previdenza complementare. Fino alle proposte più eccentriche, come quella di regionalizzare l’Istat: come se la statistica veneta fosse migliore di quella nazionale. La secessione dei ricchi non cade dal cielo: è la realizzazione del disegno a lungo e coerentemente sostenuto dalla Lega, per cui gli italiani dei propri territori di elezione vengono prima degli altri: con più risorse e più poteri locali. 

Tutto ciò comporta una riconfigurazione profondissima del funzionamento del nostro paese e dei diritti dei suoi cittadini. Un processo che fissa regole ad hoc per veneti e lombardi, prima di definire principi e criteri che valgono per tutti gli italiani, come i Livelli Essenziali delle Prestazioni previsti dalla Costituzione. I dossier sono stati istruiti dai Presidenti leghisti di Veneto e Lombardia e dalla ministra leghista veneta agli Affari Regionali. Se approvato in Consiglio dei Ministri, l’intero pacchetto passerebbe in Parlamento per un mero voto di ratifica: senza poter entrare nel merito, discutere, emendare. Fatto questo, tutto il potere attuativo (ad esempio di stabilire quanto di più merita, come servizio scuola, lo studente della Lombardia rispetto a quello del Lazio o della Campania) passerebbe a commissioni tecniche. E, stabilito il percorso, altre regioni potrebbero accodarsi. 

<HS9>Di tutto ciò, dei danni profondi che potrebbe portare all’intero Paese, ed ai cittadini che vivono nelle regioni meno forti, non si discute affatto, con la calma e la profondità necessaria. Si è rafforzato invece, negli ultimi giorni, il grido del Nord che chiede con urgenza l’autonomia. Senza mai accettare la discussione, rispondere alle obiezioni, entrare nel merito: l’unico mantra è che bisogna lasciare soldi e poteri ai territori più forti, perché possano correre da soli. E che gli altri si arrangino, e si diano finalmente da fare. Magari destinando ai meridionali un po’ di elemosina di reddito di cittadinanza, proprio mentre si riducono quei diritti, in primis all’istruzione e alla salute, che la rendono effettiva. Si alzano i toni delle contrapposizioni territoriali. 

Sarebbe bene fermarsi, prima di produrre irreparabili strappi al Paese. Informare bene gli italiani e chiedere loro che ne pensano; anche a quel 62% di lombardi che non ha votato al referendum. Chiedere al Parlamento di istruire le materie, e discutere tanto, nel merito, prima di deliberare a scatola chiusa. Nell’interesse di tutti: anche di quei territori che si illudono che, andando da soli nell’economia globale di oggi non si ridurrebbero a piccoli satelliti della Germania. L’unità sostanziale del Paese, la sua capacità di crescere grazie a tutti i suoi territori, e di rafforzare la sua coesione economico-sociale sono questioni serie, serissime.
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