Le elezioni al tempo degli agenti provocatori

di Mauro Calise
Lunedì 19 Febbraio 2018, 08:15 - Ultimo agg. 09:25
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La campagna orchestrata da Fanpage segna un salto di qualità nel rapporto - già rischioso – tra media e magistratura. Portandolo a un livello di guardia per la tenuta del sistema democratico. Sia per le conseguenze immediate, che per quelle che emergeranno appena il fumo della denuncia video si sarà diradato. Sono due piani che vanno distinti. Perché il primo – purtroppo – è già chiaro. Il secondo, molto più intricato, non sarà facile da affrontare.

Con le sue dimissioni, Roberto De Luca ha sgombrato il campo dal cortocircuito familiare che è stato al centro dell’inchiesta, e che ha sollecitato il consueto polverone politico-mediatico ogni qualvolta viene tirato in ballo un parente di un importante politico. Ma – accanto a un danno personale altissimo – rimane, incalcolabile, il danno elettorale che l’inchiesta – giornalistica, quella giudiziaria è ancora in corso – reca a una parte politica, il partito democratico in Campania. 

Un’inchiesta particolare, visti gli sforzi dei giornalisti impegnati (sei mesi in giro per l’Italia) e – soprattutto – il ruolo inedito di agenti provocatori che hanno svolto. Un ruolo che esorbita dai confini della legge, visto che è costata al reporter e al direttore della testata l’iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa di corruzione. Ma l’aspetto più particolare – e allarmante - risulta il timing della pubblicazione, nell’immediata vigilia della chiamata popolare alle urne. E ciò a dispetto del danno che ne sarebbe conseguito a tre filoni già avanzati di indagini, sul rapporto tra criminalità organizzata e smaltimento dei rifiuti, in corso in Procura. Come ha spiegato, con esemplare chiarezza informativa, Leandro Del Gaudio, ieri, su queste colonne. Ad oggi, questo aspetto sembra sottovalutato nella gran parte dei commenti pubblici, per lo più tesi a difendere il sacrosanto diritto insopprimibile della libertà di stampa. Già. Ma la libertà politica – fondamentale libertà democratica - di condurre una campagna elettorale senza vedersi piombare addosso una cortina di accuse infamanti che soltanto tra molti mesi sarà possibile verificare o confutare?

Ciò porta al secondo piano del rapporto tra media e magistratura, che si apre con questa vicenda e che non sappiamo come – e quando – si riuscirà a dipanare. Fino ad oggi, il circolo vizioso dell’intreccio si consumava nella celebrazione dei cosiddetti processi a stampa. Un fenomeno tristemente noto, che coincide con l’enorme clamore mediatico suscitato – e amplificato – da un avviso di garanzia ad un politico e, in qualche caso, del suo rinvio a processo. Con un danno immediato e ingente alla sua immagine e, spesso, alla sua carriera. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’indagato verrà prosciolto nel primo – o secondo o terzo – grado di giudizio. Ma intanto, come si suol dire, la frittata è stata fatta e mangiata. Le democrazie – già indebolite nei circuiti tradizionali di legittimazione – non sanno ancora come difendersi da questo micidiale cortocircuito. E possono soltanto consolarsi col fatto che, con poche eccezioni, il cortocircuito non nasce dalle intenzioni di protagonismo di un magistrato troppo narcisista o dalla tendenza dei giornali di azzannare, appena possibile, il malcapitato di turno. Ma risponde alla medesima logica di funzionamento, dei media come della magistratura: la logica personalizzante della denuncia – che sia giudiziaria o a mezzo stampa.

Con l’inchiesta Fanpage, però, non siamo più alla denuncia di un reato – vero o presunto che risulterà. Siamo – come si evince dall’intervento della magistratura - alla sua costruzione. E quindi, alla moltiplicazione soggettiva degli effetti di cui stiamo parlando. Una moltiplicazione che, per la natura degli attori coinvolti e i tempi dell’operazione, si configura come un atto apertamente politico. Alcuni lo troveranno legittimo. Ma possiamo provare a immaginare se, seguendo l’esempio di Fanpage, le principali testate giornalistiche nazionali – cartacee, in rete, e televisive – si dedicassero a questa attività. E cosa questo significherebbe per quella distinzione tra i poteri che resta la base di ogni regime democratico. 

Non c’è ragione di dubitare che i giornalisti al centro dell’intrigo siano stati animati soltanto da un insaziabile senso civico. Ma le conseguenze con cui la politica e la magistratura si trovano a fare i conti vanno al di là delle buone intenzioni. Riguardano la salute della cosa pubblica.
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