M5S, tutti i dubbi degli economisti:
«Da Di Maio ricetta demagogica»

M5S, tutti i dubbi degli economisti: «Da Di Maio ricetta demagogica»
di Nando Santonastaso
Venerdì 5 Gennaio 2018, 09:08 - Ultimo agg. 6 Gennaio, 16:11
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Dice Paolo Savona, economista di lungo corso e già ministro dell'industria, che «per la nuova legislatura sarebbe meglio non mettere mano a provvedimenti fiscali perché, come nel caso della proposta sul reddito di cittadinanza, sono proprio simili discussioni ad aver portato l'Italia alla crisi e il ceto medio ad essere subissato di tasse». In queste parole c'è la sintesi dei dubbi che molti economisti nutrono sulle ricette economiche del programma di governo del Movimento 5Stelle rilanciate e ribadite dal candidato premier Luigi Di Maio nell'intervista al Mattino.

Il nodo della copertura delle risorse occorrenti a realizzare i punti chiave di quel programma (dal reddito di cittadinanza all'abolizione del jobs act e della legge Fornero sulle pensioni, fino all'imposizione di nuove tasse sulle banche e sulle loro rendite finanziarie) è il leit motiv del giorno dopo. «Io credo che alle prossime elezioni - insiste Savona - un partito dovrebbe garantire la stabilità fiscale.

Negli anni Sessanta, quando arrivò la prima grave crisi economica, la pressione fiscale era al 25 per cento: l'abbiamo raddoppiata negli anni successivi per fare come dicono i 5Stelle, una distribuzione cioè apparentemente più equa del reddito che in realtà si è rivelata molto più iniqua, penalizzando come detto soprattutto la middle class. Non è un caso che i ricchi sono diventati più ricchi e la classe media si è invece ancora di più impoverita». Anche l'abolizione del jobs act proposta dai 5Stelle per recuperare lavoro ai giovani, puntando ad abbassare il cuneo fiscale senza toccare i salari, come ha detto Di Maio, trova scarso credito. «Pure questa è demagogia perché effettuare operazioni fiscali per andare a vantaggio dei salari, non garantisce un risultato di equità, come tutti gli economisti spiegano. Oltretutto i margini di manovra che il nuovo governo avrà sono già pesantemente condizionati dai 259 decreti attuativi che attendono ancora di essere varati», dice Savona. E tassare le banche che, secondo i 5 Stelle hanno una imposizione fiscale inferiore a quella esistente in altri Paesi europei? «Sarebbe la spallata finale al sistema economico italiano», aggiunge l'economista.

 

Anche Giuseppe Di Taranto, docente di Storia dell'economia e dell'impresa alla Luiss, è scettico sull'impalcatura economica annunciata da Di Maio, ma riconosce al movimento l'originalità di alcune proposte: «L'idea di un ministro ad hoc per il turismo - dice, ad esempio - mi sembra valida soprattutto per il Mezzogiorno che ha dimostrato proprio nel 2017 una rinnovata vitalità in questo comparto». E anche sulla revisione della legge Fornero l'economista di origini napoletane non è critico: «Il problema c'è e lo dimostra il fatto che la legge Fornero ha avuto bisogno dell'intervento del governo e del Parlamento per garantire la pensione a ben sette contingenti di esodati. È nella realtà l'esigenza di cambiarla, ma bisogna sempre fare i conti con lo stato delle risorse pubbliche disponibili. Il governo ha dovuto dire no ai sindacati che chiedevano di ridiscutere il rapporto tra l'età di uscita a 67 anni e la durata dell'età media di vita perché nei primi due, tre anni di attuazione di questo eventuale provvedimento, sarebbero occorsi 5 miliardi. Ovvero quello che rimane della Legge di Bilancio, appena approvata dal Parlamento, decurtata dei 15 miliardi necessari ad evitare l'aumento dell'Iva. Ma che il problema del lavoro giovanile sia enorme è fuori discussione: secondo uno studio di Fondazione Visentini e Luiss, mentre nel 2004 un giovane per realizzarsi sul piano socio-economico, con lavoro adeguato cioè al titolo di studio e con famiglia, impiegava dieci anni, nel 2020 ne dovrà impiegare almeno diciannove».
Insomma i conti bisogna farli con l'oste, dice Di Taranto, contrario all'abolizione del jobs act «perché significherebbe cancellare gli elementi positivi che hanno creato nuova occupazione e garantito anche nel 2018 la decontribuzione al cento per cento alle imprese che assumono giovani al Sud. Ben vengano, se ci sono, proposte migliorative ma si resti per favore aderenti alla realtà». Come a proposito del reddito di cittadinanza: «Molti si saranno chiesti - dice Di Taranto - perché tutti i partiti stanno facendo a gara nel presentare proposte per la lotta alla povertà, dai 5 Stelle a Forza Italia che ha lanciato il reddito di dignità, mentre il governo ha varato il reddito di inclusione. Non tutti sanno che nel 2017 l'Ue si è finalmente accorta del problema povertà in Europa varando una carta dei diritti sociali e imponendo agli Stati membri di affrontare di petto il problema. Ecco perché ora tutti si sentono coinvolti ma poi bisogna mantenere le promesse e non farle diventare false premesse come già capitato».
Il nodo delle risorse torna, puntualmente, anche nel ragionamento di Andrea Montanino, ex manager del Fondo monetario internazionale che da febbraio prenderà il posto di Luca Paolazzi alla guida del Centro studi di Confindustria: «Un Paese che ha un debito pubblico - sostiene - pari al 130 per cento del Pil ha il dovere di ridurlo gradualmente. Ogni settimana il Tesoro mette all'asta i titoli di Stato per confermare la fiducia degli investitori e pagare gli interessi sul disavanzo che, bisogna riconoscerlo, continua ad aumentare. Ma per disporre di più risorse, come quelle che occorrerebbero ad esempio per il reddito di cittadinanza, le strade sono solamente due: o aumentare le tasse, e la cosa è francamente impossibile, specie se si pensasse di fare gravare gli incrementi solo sulle imprese, o ridurre la spesa pubblica. Ma anche qui c'è tanta demagogia. Tolti agli 800 miliardi di spesa pubblica fatta da spesa per interessi sul debito, stipendi dei dipendenti pubblici e pensioni, resterebbero circa 350 miliardi aggredibili: fare risparmi su questa cifra non andrebbe però oltre l'1-2 per cento di tagli perché è difficile andare oltre. Il risultato, quindi, sarebbe a dir poco modesto».
Montanino va anche oltre e contesta il ricorso ad una decisione che rischia «di disincentivare la ricerca di un lavoro. Ogni misura che garantisce un reddito, infatti. dà una dipendenza come dimostrano tutti gli studi economici. Vanno bene i controlli promessi a carico di chi rifiuta un lavoro, ma noi non siamo la Svezia, da noi i servizi all'impiego sono ancora troppo carenti». E la proposta di investire sul piano energetico nelle fonti rinnovabili, preparandosi ad abbandonare il petrolio come anche altri Paesi hanno annunciato? «Non è una novità - risponde Montanino - perché in Europa siamo secondi solo alla Germania per quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. La strada, insomma, è già tracciata. Tassare i petrolieri? Secondo lei alla fine non si rifarebbero su noi automobilisti aggravando il costo della benzina una volta che su di loro fosse aumentata la pressione fiscale?».
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