«Orbán non va messo all’angolo». È quasi passata la mezzanotte di mercoledì a Bruxelles. All’hotel Amigo, ex carcere eletto a residenza storica nel centro della Capitale belga, Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron siedono allo stesso tavolo. Dopo oltre un’ora e mezza di confronto, dall’angolo abitualmente occupato dalla delegazione tedesca si alza Olaf Scholz. Il bilaterale diventa un confronto a tre con al centro, spiega uno dei fedelissimi della premier, «una questione politica che rischia di paralizzare l’Europa». Serve «una strategia» che possa «disinnescare» il presidente ungherese. E serve in fretta. Il rischio è che Orbán non tenga in scacco Bruxelles solo attraverso i giochi di posizione sul dossier ucraino, ma intervenga a colpi di veti sulle partite comunitarie principali fino alla fine della sua legislatura nel 2026. L’obiettivo del leader filo-putiniano del resto, è tirare per le lunghe tutti quei dossier su cui vanta un certo interesse. Che si parli dell’allargamento o dei fondi di sostegno alle imprese, l’arma che Orbán imbraccia è il rinvio. Per almeno due motivi la boa da aggirare per l’ungherese è giugno. Il primo è che a metà del prossimo anno riceverà dal Belgio l’onere di guidare il semestre europeo, dettando l’agenda dei lavori europei. Il secondo è che, per lo strano destino dettato dall’alternanza dei 27, può farlo con una maggioranza che potrebbe essergli molto più favorevole. E proprio questo è uno dei punti nodali della vicenda. «Una delle chiavi di lettura dell’incontro dell’Amigo» racconta chi è vicino alla premier, «è che Orbán vuole entrare nell’Ecr». Ovvero nel partito dei conservatori europei di cui Meloni è presidente. Vuole cioè scrollarsi di dosso almeno in parte quell’etichetta di “reietto” che indossa in questo momento.
E quindi ecco che, «su richiesta di Macron, Scholz, von der Leyen e Michel» alla premier viene affidato il mandato di provare una mediazione «concordando» di non partecipare alla colazione con Orbán organizzata dai vertici Ue nella mattinata di ieri e incontrarlo da sola.
LA SOLUZIONE
A Bruxelles Orbán tiene in scacco per qualche altra ora il Consiglio europeo, anche quando si parla di bilancio. Alla fine, dopo aver strappato più d’una promessa sui fondi Ue destinati a Budapest (con Meloni dalla sua parte nel sostenerne le ragioni, non solo sui 10 miliardi di euro già promessi), prima del voto sull’adesione di Kiev l’ungherese si alza, notifica la sua assenza al presidente Michel e se ne va. È lo stratagemma concordato che l’ungherese può rivendicare internamente come un suo “pugno duro”. Secondo diverse fonti europee l’invito a compiere il beau geste sarebbe arrivato da Scholz. Gli italiani però la rivendicano più o meno apertamente come una vittoria di Meloni. In ogni caso, per dirla con le parole di von der Leyen, «è storia».