Ucraina, il cardinale Gallagher: «La guerra? È la tempesta perfetta, non c'è voglia di dialogo»

Il ministro degli Esteri della Santa Sede: tutte le porte devono essere tenute aperte

Il cardinale Gallagher
Il cardinale Gallagher
di Angelo Scelzo
Mercoledì 9 Agosto 2023, 09:22
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Del diplomatico ha tutto, il lungo corso di studi e di esperienze intorno al mondo, nelle nunziature dei cinque continenti, lo stile, il tono pacato e, quando occorre, solenne, perfino la «phisique du role», con il filo di barba bianca sul volto ben tornito di un inglese di Liverpool, la città dei Beatles e dei "reds" la più popolare delle squadre di calcio d'oltre Manica. Ma ciò che meno di tutto manca a Paul Richard Gallagher, 69 anni arcivescovo, segretario per i rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali, in pratica il "ministro degli Esteri" della Santa Sede, è il realismo, uno sguardo diretto e lucido sullo stato di salute di un mondo scosso e tormentato come non mai.

«Papa Francesco parla spesso della "terza guerra mondiale a pezzi". Io aggiungerei che siamo nel pieno della "tempesta perfetta", visto che al ritorno del conflitto armato in Europa occorre aggiungere le grandi emergenze dell'ambiente malato e dei flussi di una migrazione che ha già raggiunto dimensioni bibliche. E tutto questo sotto la tremenda cappa di una pandemia che è venuta a ricordarci in modo drammatico la fragilità della nostra condizione».

Diplomatico sì - e con il cardinale Parolin al timone di tutta la vastissima rete di "osservatori" vaticani - ma uomo di fede e quindi di speranza, tanto più nei momenti in cui essa sembra mancare e non avere più spazi. E il momento sembra proprio questo. Qual è il punto di crisi?
«Disinteresse di mediazioni e dialogo: dal punto di vista diplomatico definirei così questa situazione di stallo che neppure una rovinosa guerra in corso riesce a smuovere. È un atteggiamento grave, di fronte al quale la chiesa si sente ancora più impegnata a ricercare le occasioni per parlare con tutti. Non possiamo rassegnarci al fatto che siano le armi a padroneggiare ogni parte del campo. Assistiamo giorno per giorno alle rovine e alle devastazioni di un conflitto di cui non si vede la fine».

Si può credere che la conclusione, nonostante tutto, potrà avvenire al tavolo dei negoziati?
«Certo. E d'altra parte è stato il presidente Zelensky il primo a dirlo, subito dopo l'invasione, anche se da allora la situazione si è aggravata talmente che ha reso ancora più difficile la prospettiva di prendere in considerazione un cessate il fuoco.

Si possono capire le sue ragioni dal punto di vista militare, ma ciò che è urgente è fare ogni sforzo perché la guerra termini al più presto. Deve essere, certo, una pace giusta, con una soluzione che porti speranza a tutti. E si capisce che tutto questo richiede da parte di ognuno la disponibilità ad accettare di rinunciare a qualcosa, allorquando sarà possibile. Per noi la guerra non è una partita che debba concludersi con un vincitore e un vinto. Come ha detto il Papa la guerra è una drammatica sconfitta per tutti».

È possibile tracciare un primo bilancio della missione vaticana, dopo gli incontri del cardinale Zuppi a Kiev, Mosca e Washington, pur tenendo conto della freddezza di Zelensky ("non abbiamo bisogno di nessuna mediazione") e della "distanza" di Putin che ha affidato il colloquio a un suo stretto collaboratore?
«Non può esistere un bilancio in corso d'opera. La mediazione vaticana è molto chiara ed esprime la volontà del Papa di mobilitare la chiesa di fronte alle grandi sfide del presente. Non si può essere indifferenti di fronte a questo momento così difficile della storia. E meno che mai può esserlo la chiesa alla quale spetta di mettere in campo, accanto alla fede, coraggio e determinazione. Non possiamo nasconderci la realtà e la drammaticità delle cose. Siamo sulla via del precipizio, spinti da quella che ho appena definito una sorta di "tempesta perfetta. L'obiettivo più immediato della missione era proprio questo, mettersi in ascolto e riaprire in ogni modo le vie del dialogo, accanto ai passaggi di natura umanitaria per il rientro in patria dei bambini ucraini, lo scambio dei prigionieri e le forme di assistenza ai civili. Il muro del disinteresse per la mediazione era - e in parte continua ad essere - ben robusto. Ma la disponibilità al dialogo era il primo ostacolo da superare, anche perché al dialogo occorre sempre dare un contenuto di verità. Non si tratta solo di parlare, ma di mettere al centro il bene dei popoli, quello della società e, in generale, il bene comune. Ciò presuppone, appunto, la disponibilità a riconoscere il momento in cui è necessario rinunciare a qualcosa. E cercare un compromesso. La missione del cardinale Zuppi ha avuto proprio il compito di spianare il terreno, ricreare un'atmosfera in cui possa trovar posto, nel più breve tempo possibile, la pace».

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L'incarico del Papa al presidente dei vescovi italiani è stato al centro di molti commenti, visto il suo ruolo esterno alla diplomazia ufficiale della Santa Sede. Si può parlare di un cambio di passo sulla via dei negoziati?
«La figura di un "inviato speciale" è piuttosto consueta quando c'è bisogno di avviare trattative nelle quali può essere utile un approccio più agile, a volte con quel tocco di inventiva che può essere più alla portata di un diplomatico per così dire "fuori ruolo". Tutte doti largamente riconosciute al cardinale Zuppi, anche per la sua passata esperienza di mediatore sul campo in altre crisi per il mondo. Il Papa ha molta fiducia in lui. E noi altrettanto, in un clima di piena e totale sintonia».

Lo attende l'ultima tappa, Pechino. È un viaggio ormai in preparazione ...
«In realtà sono in preparazione tutti i viaggi possibili, laddove la chiesa, attraverso soprattutto la predicazione del il Papa può tenere acceso per il mondo il sogno della pace. Occorre parlare con tutti, mantenere aperte tutte le porte, favorire i dialoghi non solo diretti ma anche indiretti. Cercare la pace ma anche le connessioni che possano renderla possibile. Pechino è certo un approdo di primissimo piano, una sorta di nuova frontiera per il futuro di un mondo sempre più globalizzato».

Si è di fronte, tuttavia, a cambio di orizzonte, oltre che di prassi operativa, anche per la diplomazia vaticana, che sempre più incrocia la propria strada con le grandi questioni ecumeniche. La prospettiva sul piano politico è quella di un nuovo ordine internazionale?
«In questo momento parlerei piuttosto di "disordine internazionale". Nel pieno di una così lunga transizione e con una guerra nel cuore dell'Europa, non è davvero facile ipotizzare a quale assetto si vada incontro. È sotto gli occhi di tutti la crisi dell'Onu, è innegabile l'allargamento della Nato con i nuovi equilibri che già si profilano. La conclusione della guerra in Ucraina dirà molto, ma non è possibile attendere che il modello futuro debba essere ancora macchiato dal sangue di così tante vittime e dal sacrificio di popolazioni che continuano a vedere la propria terra distrutta. Parliamo dell'Ucraina ma non possiamo dimenticare le centinaia di "guerre dimenticate" che, anche in questo momento, divampano in ogni parte del mondo. Sembrano lontane, ma, oltre ai lutti e alla drammaticità delle singole condizioni, gli effetti si fanno sentire dappertutto e "inquinano" oltremisura un clima sempre più segnato da violenze e da odi».

La diplomazia sembra essere un'arma spuntata...
«La diplomazia fa quello che può. Ma non è chiamata solo a rimettere in sesto i cocci. Suo compito è creare le condizioni per un clima di concordia nel quale tutto diventa possibile. La diplomazia vaticana ha una radice spirituale ineliminabile e, per rispondere anche alla sua osservazione sui cambiamenti che la riguardano, è significativo riflettere, in questo tempo di piena modernità, con quanta frequenza vengano evocati i grandi documenti e le encicliche sulla pace dei papi come Giovanni XXIII o Paolo VI e Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Francesco ha ripreso con forza la loro incessante predicazione di pace. Ma ciò significa che la guerra non è scomparsa dai nostri orizzonti. Continua a essere la via che più di ogni altra ci avvicina al baratro. La diplomazia non può mai nascondere la verità. Ma men che mai può mettere da parte la speranza».
 

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