Il ventre materno dell’Angiporto che ispirò il «Mistero» di Rea

Il ventre materno dell’Angiporto che ispirò il «Mistero» di Rea
di Vittorio Del Tufo
Domenica 13 Maggio 2018, 20:00
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«Deve morire Admeto.
Quando? Adesso.
Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani,
come per trattenere il dio fuggente».
(Rainer Maria Rilke, Alcesti) 

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Alla metà degli anni ‘50 Piazzetta Matilde Serao, che a quell’epoca si chiamava vico Rotto San Carlo, o Angiporto Galleria, era «uno sciamare continuo di giornalisti di diverse testate capaci spesso di ignorarsi fino all’insolenza». Così la descriveva Ermanno Rea nelle prime pagine di Mistero Napoletano, l’«indagine in forma di diario» sul suicidio, avvenuto nella Napoli ferita dell’immediato dopoguerra, della giornalista dell’Unità Francesca Spada. 
Per un’intera generazione di giornalisti e intellettuali napoletani quell’indirizzo, vico Rotto San Carlo, non fu solo un luogo di lavoro - la Fleet Street napoletana - ma uno straordinario incubatore di storie, sogni, passioni e destini, che s’incrociarono all’ombra di una città soffocata dal laurismo e prigioniera di un mondo ancora ferocemente diviso in blocchi. Una città pietrificata, nella quale le lancette della storia sembravano essersi bloccate. 

Al primo e al secondo piano il palazzo dell’Angiporto, al civico 7, ospitava il Mattino, che nel 1962 si sarebbe trasferito in via Chiatamone; al secondo una sartoria e un alberghetto a ore; al terzo l’Unità subentrata nel 1949 a La Voce, quotidiano nato come organo della sinistra unita. E poi il Corriere di Napoli, l’Ansa, Il Tempo. Lì nei pressi, Paese Sera. Il Roma, invece, se n’era andato più lontano, nel palazzo della flotta Lauro oggi diventato hotel Romeo.
Angiporto Galleria «è una sorta di ventre materno: il bandolo stesso della mia esistenza», scrive Rea di quell’esiguo spazio che fu la quinta di uno straordinario palcoscenico umano. Il terzo piano del palazzo dell’Angiporto, in particolare - la sede dell’Unità - non fu solo il tempio partenopeo del giornalismo comunista ma anche, per un lungo periodo, un «covo di innocui trasgressivi», un «centro di attrazione dove la sera convergevano, a ondate, scontenti, curiosi, naufraghi bisognosi di una zattera cui aggrapparsi, giovani e meno giovani “promesse”, qualche bella donna, qualche campione del catalogo degli “intelligenti”».

Rea scrisse Mistero napoletano nel 1995. E scelse, nel tentativo di dipanare la complessa matassa umana, esistenziale e politica che avrebbe portato al suicidio di Francesca Spada, avvenuto nel 1961, di dare voce ai testimoni di quella stagione e di tornare, fisicamente, nei luoghi della sua formazione umana e professionale. Mistero napoletano, dunque, può essere letto (e riletto) anche come un viaggio nei nostri «luoghi della memoria».
Di questi luoghi il più evocativo è certamente l’Angiporto Galleria, la piazzetta-ombelico dove prima e dopo la guerra passò mezza Italia: giornalisti, scrittori, attori, belle donne, uomini di successo. Popolata, negli anni ‘50, da una straordinaria fauna umana, da Mario Alicata a Maurizio Valenzi, da Renato Caccioppoli a Massimo Caprara, da Luigi Incoronato a Gerardo Marotta, da Luigi Compagnone a Domenico Rea, da Anna Maria Ortese ai ragazzi-non-più-ragazzi che furono detti «di Monte di Dio», perché alla fine degli anni ‘40 si riunivano alla Nunziatella, in casa del maresciallo Prunas, per confezionare un giornale («Sud») a quei tempi (e per quei tempi) ardito e rivoluzionario. 


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Altro luogo fortemente presente in Mistero napoletano è via Chiaia, dove svetta l’antico Palazzo Cellamare, nelle cui stanze viveva il grande matematico Renato Caccioppoli, nipote dell’anarchico russo Bakunin, che morì suicida nel 1959. Scrive Rea: «La stella più brillante si chiamava senz’ombra di dubbio Renato Caccioppoli, l’estroso professore di analisi matematica, anticonformista fino allo struggimento. Anzi fino allo scandalo».
È a casa Caccioppoli che si concludono, spesso, le giornate di lavoro dei giornalisti dell’Unità (e non solo). Vi si recano spesso anche Francesca Spada e Renzo Lapiccirella, con il quale la Spada aveva intrecciato una tormentata storia d’amore, mal digerita dall’ortodosso (e maschilista) partito comunista dell’epoca. Nel 1953 Lapiccirella era il viceresponsabile dell’ufficio napoletano dell’Unità: «Testa fina e carattere indocile», inviso al dispotico segretario della federazione comunista Salvatore Cacciapuoti, uomo, quest’ultimo, di Giorgio Amendola.

«Le serate finivano per lo più all’osteria. Talvolta finivano a casa di Caccioppoli dove lui e Francesca si mettevano a suonare a quattro mani: pezzi per lo più dannatamente romantici, pezzi che non finivano mai, oppure finivano per congiungersi quasi senza soluzione di continuità ad altri pezzi, obbligando incalliti chiacchieroni ad un silenzio forzato, talvolta insopportabile, tanto che il gruppo si sfoltiva progressivamente, per successive defezioni in punta di piedi». (Rea, Mistero napoletano)

La prima sera che varcò la soglia di casa Caccioppoli, a Palazzo Cellammare, Rea lo fece in compagnia di Francesca Spada. Il pomeriggio del 13 giugno 1940, tre giorni dopo la «dichiarazione di guerra» da parte di Mussolini, era stato invece Renzo Lapiccirella a bussare alla porta di Caccioppoli, nello splendido e decadente palazzo che aveva ospitato Giacomo Casanova, Goethe e Torquato Tasso, oltre a essere stato l’ultima dimora napoletana di Caravaggio. Fu un pomeriggio «catacombale», annota lo scrittore, durante il quale il «matematico pazzo» alzò in maniera imprevista il coperchio del pianoforte e accennò al motivo della Marsigliese, «pochissime note soltanto, simili a un flebile respiro». Quelle della Marsigliese sono note ricorrenti nella vita di Caccioppoli. Due anni prima, una sera di maggio del 1938, quelle stesse note risuonarono in un famoso locale di piazza Municipio, il Löwembrau, che si trovava presso il Grand Hotel de Londres vicino al teatro Mercadante. E fecero scandalo, perché a suonarle fu il matematico «matto», che era entrato in quel locale con la compagna Sara Mancuso (si sposarono nel 1939).

Caccioppoli intese così sfidare un gruppo di camicie nere che, con fare sprezzante verso il pubblico in sala, avevano attaccato, pochi minuti prima, a cantare l’inno dei fascisti, Giovinezza. «Renato scattò in piedi e, seguito da Sara, si diresse a sua volta dov’era il pianoforte. Mormorò poche parole all’orecchio del pianista che, senza esitare, gli cedette lo sgabello facendosi subito da parte...».

«Aux armes, citoyens! Formez vos bataillons...». Ne nacque un parapiglia, che costò a Caccioppoli l’arresto, la sorveglianza speciale, l’internamento in un ospedale psichiatrico. La famiglia, per evitargli il carcere, lo convinse a passare per matto. 


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Sull’avventura di Renato Caccioppoli alla birreria Löwembrau è fiorita nel tempo una meravigliosa leggenda: la scena ambientata in piazza Municipio presenta formidabili analogie con una delle scene-madri del film Casablanca, di Michael Curtiz, che uscì quattro anni dopo. Nel film è uno dei capi della Resistenza, Victor Laszlo, a zittire i gerarchi nazisti (siamo nel Marocco occupato e sotto il controllo del governo di Vichy) cantando la Marsigliese nel locale di Rick Blaine (Humprey Bogart). A ispirare Casablanca - uno dei film più belli e amati dell’intera storia del cinema - fu proprio la scena ambientata nella birreria Löwembrau di piazza Municipio? L’ipotesi è romantica, affascinante, suggestiva. Il primo ad avanzarla fu Marco Demarco, prima in un articolo sul Corriere del Mezzogiorno e poi nel libro Terronismo: «Vi sono anche altre sorprendenti analogie. Tieni conto - racconta Demarco - che all’indomani dell’episodio alla birreria Löwembrau la compagna di Caccioppoli, Sara Mancuso, che era con lui quella sera, venne spedita dai genitori a Nizza, dove aveva studiato e dove aveva rapporti con numerosi ambienti cinematografici. E a Nizza, proprio nel 1938, si era fermato Murray Burnett, l’autore di Everybody Comes to Rick’s, la commedia da cui è tratto il soggetto del film». Qualcuno raccontò a Burnett quello che era accaduto a Napoli? Certo la coincidenza è straordinaria. D’altra parte l’intera pellicola è ricca di frammenti ricostruiti a partire da vicende realmente accadute. L’ipotesi che ad ispirare la scena del film (del ‘42) sia stata la «folle» serata di Caccioppoli alla Löwembrau è stata poi ripresa da altri autori, tra cui Generoso Picone nel libro Napoletani. Abbiamo tutti il dovere civile ed etico di ricordare quell’episodio.

(1/continua)
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