La ballata del Cerriglio,
uno sciamano nel vicolo
più stretto del mondo

La ballata del Cerriglio, uno sciamano nel vicolo più stretto del mondo
di Vittorio Del Tufo
Domenica 24 Gennaio 2021, 11:23 - Ultimo agg. 25 Gennaio, 06:30
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«Quando ti metterai in viaggio per Itaca/devi augurarti che la strada sia lunga»

(Konstantinos Kavafis). 

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Enzo è cresciuto davanti a un muro, e a volte la notte sognava che una stella, cadendo, allargasse il vicolo dove abitava. Tanti anni fa ha dedicato a quel muro dei versi bellissimi.

Tutt' 'e nnotte aspetto 'int' a 'stu vico scuro che ccare na stella e allarga 'a strada.

Cchiú ppassa 'a notte e cchiú me manca ll'aria cu cchistu muro ca me sta 'e rimpetto.

Enzo è cresciuto in un vicolo scuro, che lo ha allevato in un impasto di carne, pietra e leggende. Le leggende del Cerriglio, il ventre di Napoli sospeso tra il Medioevo e il cielo. I vicoli cari a Boccaccio, a Caravaggio e a Pasolini. I vicoli di Santa Maria la Nova, dove un tempo arrivava il mare. I vicoli dell'antica locanda aperta nel 1300, ai tempi di Roberto d'Angiò. I vicoli sventrati dal piccone del Risanamento.

Venite, vi porto a vedere i luoghi della mia infanzia, dice Enzo a me e a Sergio muovendosi tra i ricordi - benedetti, maledetti - della sua infanzia. O vico scuro della poesia è il vicolo più stretto del mondo, alle spalle di Sedile di Porto. Si chiama Gradini della Piazzetta perché un tempo era collegata alla Piazzetta di Porto, raffigurata in alcune tavole antiche. 

E il muro che, da bambino, molto prima dei Pink Floyd, Enzo Gragnaniello sognava di abbattere, di vedere spazzato via da una stella, è ancora qui, ed è un muro pieno di storia perché costeggia la locanda della nostra memoria. 

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Se volete vedere il Cerriglio - e il vicolo più stretto del mondo - la cosa migliore è partire dalle strade a monte, da Palazzo Penne. La cosa migliore è percorrere la scalinata che scende ripida a fianco dell'edificio. Una dimora da favola nata dal patto - racconta la leggenda - tra messere Antonio di Penne, segretario di re Ladislao, e il diavolo in persona, che sparì nel pozzo di Palazzo Penne lanciando un urlo da dannato, e da allora pare che sia ancora lì, testimone muto del degrado che ha trasformato uno dei luoghi più belli di Napoli in una discarica a cielo aperto, un posto meraviglioso ridotto a uno schifo, nel disinteresse delle istituzioni che avrebbero il dovere di valorizzarlo.

C'è stato un tempo in cui il Pendino di Santa Barbara - dove secondo Curzio Malaparte vivevano le nane più brutte del mondo - era una discesa a mare. Palazzo Penne fu costruito sul fianco di questa discesa. Il Pendino di Santa Barbara era chiamato così perché qui anticamente sorgeva una chiesa dedicata alla santa che proteggeva dai tuoni, dalle saette e dalle morti improvvise. Tuffandovi in quel reticolo di viuzze avrete la sensazione di immergervi nella Napoli del Medioevo e in quella del Cinquecento, la Napoli della regina Giovanna e quella di Caravaggio, eternamente sospesa nella leggenda, ansimante di vita e maleodorante di morte, teatro di intrighi e taverne frequentate da ladri, puttane e poeti, sfregiata come il volto di Michelangelo Merisi dopo le coltellate dei suoi nemici che lo inseguirono, per fargli la pelle, fin sopra i vicoli di Santa Maria la Nova, tra le ombre del largo Ecce Homo, le stesse strade che, qualche secolo dopo, sarebbero state di Matilde Serao e Pino Daniele.

Pino, il Nero a metà. Quando gli parli di Pino, Gragnaniello dimentica, per un attimo, di essere uno dei poeti-cantori più raffinati della musica d'autore italiana - quattro premi Tenco - e ritorna agli anni d'infanzia trascorsi nel ventre del Cerriglio, tra i fantasmi - gli spiriti, li chiama lui - che lo hanno fatto diventare sciamano, gli hanno messo dentro una strana, misteriosa energia.

Per Enzo Pino era semplicemente Pinotto, l'amico di sempre. Si erano sentiti l'ultima volta dopo Capodanno, dopo il maledetto concerto di Courmayeur. Poi Enzo è rimasto tre giorni davanti alla sua bara, dopo una vita trascorsa «a fare cazzate insieme». Ci mostra una foto di classe di tanto tempo fa, che porta sempre in tasca. Scuola elementare Oberdan di Napoli. Due alunni sorridenti: Gragnaniello Enzo e Daniele Pino, compagni di banco e scugnizzi nella Napoli dei primi anni Sessanta. «Era bravo Pinotto, studiava. Io invece stavo sempre in mezzo alla strada. Fui bocciato quattro volte in quarta elementare. I miei erano avviliti. Alla fine l'unico istituto che potesse accogliermi era il Cottolengo, dove c'erano i ragazzi disabili. Il maestro, che era anche avvocato, mi diceva: occupati tu dei ragazzi mentre vado in tribunale. Alla fine riuscii a prendere la licenza». Con Pino il dialogo non si è mai interrotto. «Parliamo ogni giorno attraverso la musica», dice Enzo.

Perché attraverso le note si arriva all'anima.

Il Cerriglio di Enzo Gragnaniello è popolato di fantasmi. I fantasmi degli americani, innanzitutto. Enzo li ricorda bene, gli americani, perché quando era ragazzo li portava in giro per la città, li accompagnava nei loro misteriosi traffici tra i vicoli del porto. Poi, di sera, a quegli stessi americani Enzo serviva la birra in un locale dove si suonava la musica nera, quella del sangue e dell'anima, che ha messo radici dentro di lui come un canto tribale e non è andata più via.

Poi c'è il fantasma di Mia, la dolce, adorata Mimì. Enzo la sentì cantare una sera, accompagnata da un pianoforte in un piccolo ristorante, dov'era stato invitato da due impresari che volevano produrle un disco e cercavano un autore da presentarle. La sentì cantare e cominciò a tremare, non smetteva più di tremare; quella notte stessa, di getto, pensando a Mimì, scrisse il testo di una canzone, «Donna», cercando di penetrare la sua anima impastata di rabbia e di voce roca. «Cu mmè», scritta per Mia Martini e Roberto Murolo, venne dopo. Quando Mimì, durante le prove a via Toledo, cacciò l'urlo incredibile che mette ancora oggi i brividi a chi la ascolta, lei e Enzo decisero che non bisognava toccare niente, che quell'urlo doveva finire pari pari nel disco, perché stava nascendo un capolavoro.

«Cu mmè» è un canto venuto dal passato, una preghiera antica. Scinne cu mme, scendi dentro di me, si tu nun scinne a ffonne nun o puo' sape', il vero incontro tra due anime può avvenire solo nei nostri misteriosi abissi, ci dice Enzo davanti al Cerriglio, emozionandosi come la prima volta che sentì cantare Mimì. 

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Da bambino Enzo Gragnaniello non lo sapeva che sarebbe diventato il Papa dei Quartieri Spagnoli (perché oggi Enzo ai Quartieri, dove si è trasferito tanti anni fa, è uno strano Papa laico e vestito di nero, e non c'è anima viva che non lo fermi quando cammina per strada). Non sapeva neanche che un giorno la sua voce avrebbe ricordato il suono delle grotte di tufo quando sono visitate dal vento: un canto libero che nasce da un lamento antico, come il battito della terra, come il respiro potente dei vulcani.

Un giorno Enzo ha scoperto che nel Cinquecento la musica napoletana veniva usata per guarire i malati, e da allora anche il suo canto è diventato sciamano. Da ragazzo, capelli lunghi e chitarra, frequentava i disoccupati dei Banchi Nuovi, e di quel gruppo diventò la voce e l'anima, o poeta, quello che subito dopo il terremoto prendeva la chitarra e se ne andava a suonare a Lione, per portare il conforto della musica a chi non aveva più il conforto della casa. Anni di musica militante, che lo spinsero a partecipare, nel 1976, al festival di Berlino dedicato alle tradizioni popolari, e successivamente a pubblicare i suoi primi album.

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Se volete andare al Cerriglio, a vedere questi luoghi, a respirare queste atmosfere, andateci di notte, quando non vola una mosca, e sforzatevi di immaginare i gruppi di querce - i cerri - che all'epoca di Caravaggio ornavano i vicoli della zona lasciandoli nella penombra. Prima di essere ingoiato dagli interventi urbanistici del Risanamento, che bonificarono la zona per creare il Rettifilo, il Cerriglio era un budello infernale. Oggi, in parte, lo è ancora, perché la via del Cerriglio e i Gradini della Piazzetta sono ridotti male, lo abbiamo detto prima, e meriterebbero ben altra attenzione da parte delle istituzioni, che pure si sciacquano la bocca con le nostre memorie. Nascosta nel dedalo tortuoso e maleodorante dei vicoli che conducevano al porto, a taverna era rifugio di balordi ma anche di clienti pieni di soldi, di vizi e stravizi che dopo aver gozzovigliato si trasferivano ai piani superiori, dove erano attesi non da artisti a caccia di ispirazione ma da prostitute a caccia di clienti, provenienti dalla vicina Rua Catalana. Una porta d'ingresso secondaria era utilizzata per gli accessi discreti e per le fughe precipitose. Il padrone di casa, all'epoca, chiudeva un occhio, anzi probabilmente li chiudeva entrambi e intonava una prece, dal momento che il proprietario del Cerriglio è stato, per un lungo periodo, il monastero di Santa Chiara.

Tutto questo, e molto altro, è il Cerriglio, tutto questo è Enzo. Per noi, Enzo e il Cerriglio sono una sola cosa, la voce che nasce dai nostri misteriosi abissi, dai nostri luoghi più oscuri, la voce che diventa lava, che brucia la pelle, che fa vibrare l'anima. E abbatte i muri.

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