La leggenda della seta
e il Nero di Napoli
che incantò il mondo

La leggenda della seta e il Nero di Napoli che incantò il mondo
di Vittorio Del Tufo
Domenica 18 Ottobre 2020, 20:00 - Ultimo agg. 23:55
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«Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina»

(Anna Maria Ortese, il mare non bagna Napoli)
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«Napule è mille culure», cantava Pino Daniele. C'è stato un tempo - ed è un tempo di cui non dovremmo disperdere la memoria - in cui i mille colori di Napoli facevano invidia al mondo. Erano gli anni dei grandi artigiani della seta, settore trainante dell'economia del regno dalla seconda metà del Cinquecento fino al Settecento.

Napoli era famosa per il suo indaco, per il suo rosso di cocciniglia, per la sua terra gialla.

Era famosa, soprattutto, per il suo nero.

Nel «nero di Napoli» tintori provenienti da ogni parte del mondo immergevano le proprie stoffe. Il segreto di quel nero consisteva nell'aggiungere, al colore nero, della limatura in ferro. Il nero napoletano, famoso soprattutto per la stabilità ai lavaggi, superò di gran lunga qualunque altro tipo di tintura per stoffe dell'epoca. I genovesi, a loro volta celebrati per la produzione dei velluti, vennero a Napoli per studiarne le tecniche.

Era a tal punto importante, l'arte della seta, che ad essa fu intitolata una delle più belle (e segrete) chiese dei Decumani: la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, o chiesa dell'Arte della Seta, in via San Biagio dei Librai. Il luogo di culto fu voluto, nel 1591, dalla Corporazione dell'Arte della Seta, che era composta da mercanti, tessitori e tintori. I tessitori napoletani erano diventati potenti grazie al sostegno che aveva dato loro, oltre un secolo prima, re Alfonso d'Aragona. Che fu non solo Magnanimo ma anche lungimirante, perché capì prima di altri che questa nobile arte, che dava da vivere a quasi metà della popolazione, avrebbe potuto fare da volàno allo sviluppo di un territorio ricco di potenzialità e di talenti.

«Saie quanno fuste, Napoli, curona? Quanno regnava Casa d'Aragona», cantava il popolo in ricordo di re Alfonso. Quel che è certo è che Napoli, anche grazie agli auspici del sovrano aragonese, fu per un lungo periodo la capitale mondiale della seta. La Corporazione dell'Arte della Seta fu istituita nel 1477; la città veniva descritta dalle fonti di allora come «brulicante di filatoi, botteghe di setaioli, tinte, tessitorie, fondaci di mercanti». Furono gli ebrei arrivati nella zona di Porta Nova a dar vita alle prime botteghe: la seta veniva usata nelle chiese, sulle pareti, negli apparati funebri e per i paramenti sacri.

Ai membri della Corporazione erano garantiti numerosi privilegi: l'abolizione dei dazi doganali, l'impunità dei crimini commessi prima e dopo l'iscrizione, il poter essere giudicati da un Tribunale Speciale dell'Arte della Seta e sepolti nell'ipogeo della chiesa, al quale si accedeva attraverso una botola. La chiesa dei santi Filippo e Giacomo, o dell'Arte della Seta, è legata al ricordo di un antico conservatorio. E alle storie incredibili che vi furono ambientate.
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Un primo Conservatorio con piccola chiesetta annessa venne fondato dalla Corporazione nel 1582 in Vico Parrettari, nei pressi di Piazza Mercato, per poi essere trasferito e ricostruito più ampio proprio su via San Biagio dei Librai nel 1591. L'antico Conservatorio dell'Arte della Seta, oggi sede dell'Istituto Comprensivo Statale Teresa Confalonieri, fu istituito con il compito di proteggere, salvandole dalla strada o da morte certe, le cosiddette Figliuole della Seta: bambine, figlie di iscritti al registro delle matricole dell'Arte che erano caduti in disgrazia o le avevano lasciate orfane. In origine, infatti, i Conservatori nacquero con vocazione sociale per tutelare la dignità delle persone e dare loro un futuro attraverso l'insegnamento di un mestiere. Così nel Conservatorio dell'Arte della Seta le ragazze venivano protette dalla perdita dell'onore, evitando che si dessero alla prostituzione; istruite, imparavano a lavorare i tessuti e dopo 10 anni di permanenza nel conservatorio potevano essere date in moglie, con una dote di 50 ducati, abbandonando definitivamente la vita di clausura.
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Molto prima di San Leucio - le cui produzioni ancora oggi si possono ritrovare in ogni parte del mondo, dal Vaticano al Quirinale, perfino nello Studio Ovale della Casa Bianca - le sete partenopee, grazie ai galeoni spagnoli, erano in grado di raggiungere persino le lontane Americhe.

Alla fine del Settecento, in un mondo che cambiava, cambiò anche la produzione tessile, che diventò meccanizzata. Sarà re Ferdinando IV di Borbone a spostare la produzione della seta a San Leucio. Già il padre, Carlo di Borbone, nei primi anni del suo regno, aveva rilanciato la Corporazione in un momento di crisi economica. La rinascita della chiesa dei santi Filippo e Giacomo risale proprio agli anni di re Carlo.

Verso la metà del 700 la chiesa di via San Biagio dei Librai divenne un autentico gioiello del barocco napoletano. Agli affreschi, alle decorazioni marmoree, agli altari, ai pavimenti e agli arredi sacri lavorarono artisti del calibro di Alessio D'Elia, Jacopo Cestaro, Giacomo Massotti, i fratelli Massa, Lorenzo De Caro e Giuseppe Sanmartino, il geniale scultore del Cristo Velato. Artisti geniali che nel 1759 parteciparono al rifacimento del Conservatorio e della Chiesa con cui acquisì l'attuale aspetto, tipico del tardo barocco.

Un luogo della memoria, dove danzano le ombre del passato. La sacrestia, per decenni non accessibile, custodisce il Tesoro dell'Arte della Seta e rarissime testimonianze dell'artigianato ligneo napoletano del 700, tra cui lo splendido altare in legno del maestro intagliatore Marc'Antonio Tibaldi realizzato nel 1712. Il cortile interno, al di sotto del pavimento, nasconde una preziosa stratificazione storico-archeologica: parte della pavimentazione del cortile copre probabilmente i resti di una domus romana o di quel che resta dell'antica sede della Fratria dei Cretondi, una delle Fratrie greco-romane in cui si suddividevano i cittadini di Neapolis a partire dal 400 a.C. sul modello delle altre città greche. Fu il ritrovamento ottocentesco, in quella zona, di un piedistallo e della base di una statua, entrambe in marmo con epigrafi in greco, a far ipotizzare che proprio lì, in epoca greca, vi fosse la sede dei Cretondi.

Oggi lo splendore di questi luoghi, e della Napoli della Seta, rivive grazie a un'associazione culturale, Respiriamo Arte, che dal 2015 è impegnata nella valorizzazione storico-artistica della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, con l'obiettivo di riportare alla nostra attenzione quel segmento della storia di Napoli che la vide importante centro di produzione e lavorazione della seta. Grazie all'intervento di Respiriamo Arte, oggi è visitabile anche la parte dell'edificio che fu destinata alla clausura delle Figliuole della Seta, dove è possibile ammirare gli affreschi cinquecenteschi, testimonianza della primissima cappella dei santi Filippo e Giacomo; ma anche ciò che resta del vicolo che fino alla fine del 500 separava i due palazzi che sorgevano nella zona prima della nascita del complesso, palazzi di cui è possibile scorgere le mensole in piperno dei balconi. Uno straordinario lavoro di scavo nel passato e di recupero della memoria in una città dove troppo spesso la memoria è dannata, è carta straccia.

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