Bagni, l’altro Diego:
il campione del cuore

Bagni, l’altro Diego: il campione del cuore
di Marco Ciriello
Mercoledì 10 Maggio 2017, 08:51
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L’anima di riserva, quella che mancava. Un collettore tra viscere napoletane e campo. L’esuberanza del vicolo pur venendo da lontano. L’uomo in più, in aggiunta a Maradona, il carattere della squadra, che da rissoso diventa saggio, e memore d’un passato da ala destra è capace anche di numeri che in quegli anni uno nel suo ruolo non faceva: alternava le rovesciate a vigorosi tackle, i dribbling a recuperi da marine.
Salvatore Bagni era il calciatore sempre pronto a fare il suo dovere. Un Passarella senza epica da caudillo, con le piadine della riviera romagnola a stemperarne la furia, e l’Inter lasciata senza rimpianti. Quattro gli allenatori che fino all’anno dello scudetto lo avevano segnato: Ilario Castagner che al Perugia lo fa diventare calciatore dall’Interregionale, Rino Marchesi che lo trasforma in mediano segnandogli la carriera e cambiandogli posto in campo, Ottavio Bianchi che gli concede il privilegio di comandare evolvendo il ruolo che era stato suo in passato ed Enzo Bearzot che gli mette la dieci addosso e lo porta in Messico. 
Su questa storia Maradona lo prenderà molto in giro, raccontandolo al giornalista argentino Daniel Arcucci nel loro libro “La mano di Dio” (Mondadori). Italia e Argentina si affrontano a Puebla e finisce uno a uno, Maradona segna col pallonetto, un tiro beffardo che Galli ancora giura di non aver visto passare, un cardillo addolorato più che una palombella, l’ha colpita con una racchetta non con un piede, giurerà Giovanni Galli poi persino compagno di squadra di Maradona nel Napoli. Anni dopo Maradona lo scagionerà dando la colpa a Gaetano Scirea. Erano innocenti entrambi. Maradona si è sempre divertito a fare quei giochi di magia, come un Mandrake col pallone, per questo rise molto ritrovandosi Salvatore Bagni con la dieci in campo. «Enzo Bearzot, l’allenatore, mi mette addosso, perché mi marchi, proprio il mio compagno. Non so se era convinto di potermi tenere nell’uno contro uno perché mi conosceva, ma la verità è che io ero tre gradini sopra Salva, Salvatore Bagni. Era lui, il mio compagno. Indossava la maglia numero 10, la 10 dell’Italia! Però, ovviamente, non giocava come un 10. E inoltre aveva un ginocchio non del tutto a posto. Quell’Italia arrivò al Mondiale trascinandosi, e allo stesso modo se ne tornò immediatamente a casa».
Affettuoso e spietato, di fatto il rapporto con Bagni è nato con un litigio fragoroso e continua in una amicizia che alterna abbracci strettissimi e lontananze che durano bienni. Non fu così quell’anno in campo, Salva, Salvatore Bagni, fu l’ombra di Maradona, quasi avesse paura che tutti ne schiacciassero la gloria, e corse il doppio nelle domeniche che il campione argentino era stanco o affranto per i problemi dovuti prima alla nascita di Diego jr, poi per i dolori della sua caviglia, e infine per i continui viaggi in Argentina dove nasceva Dalma, la sua primogenita, e dove Claudia Villafane, era tornata. La generosità di Bagni è indiscussa proprio perché enorme, ai limiti del cameratismo da caserma, e che si esplicitava nei suoi gesti in campo, e che arriva a noi con i suoi commenti delle partite (ultimi anni) con l’affanno di chi non vuole tralasciare niente, mostrando tutto quello che ha. Così giocava, senza mai tirare indietro una gamba o un respiro, un guerriero, col campo a fargli da battaglia, spesso fino all’orlo del ridicolo, che avvolge tutti gli agguerriti combattenti che esagerano con l’orgoglio. Un po’ spaccone, quando ripete che non ha paura di niente e nessuno, ma è uno vero che ha lottato sempre, ottenendo i risultati senza imbrogliare, non si trova una partita dove non ci sia il suo nome tra i migliori in campo.
Bagni è un personaggio di Clint Eastwood, con la famiglia da amare e difendere, la giusta rabbia nel suo lavoro, una dedizione alla causa – che sia la squadra o la nazione – e un posto tranquillo dove tornare, segnando i confini da non oltrepassare e da difendere. Un semplice, per questo geometricamente perfetto in campo e fuori. Una figura piana, capace di accendersi nelle mischie e di sciogliersi fuori dal tempo di gioco. A scorrere le pagelle si trovano una pioggia di sette ed otto, a riprova che Bagni è uno che le partite non le attraversa, ma le spacca, al punto di piacere persino a uno come Omar Sivori che arriva a dire che per vincere serve avere sempre un Bagni in squadra, «ineguagliabile per potenza, qualità e tenacia». Antonio Juliano: «Bagni è il calciatore che più mi rassomiglia». Con ritmi differenti ma il paragone ci sta. Anche Maradona lo usava come esempio nei discorsi pre-gara: «Bisogna giocare come fa Salvatore; mai arrendersi come fa Salvatore; andare in pressing come fa Salvatore; respirare, calciare, contrastare come fa Salvatore». E in aggiunta ci va la sua pazienza, perché se è vero che dalla curva ai giornali fioccavano elogi ed affetto, da una parte della città arrivarono furti in casa e in garage, oro e auto, per le regole di Salvatore, quei furti facevano parte del gioco, no, non del calcio, ma delle parti, più cresceva l’esposizione maggiori erano i rischi. «Combatto alla morte in ogni partita ma non ho mai fatto male a una mosca». 
Spontanea espressione di una Italia diversa, di quella provincia dell’Emilia-Romagna che mischiava il divertimento alla fatica, allargando i confini del quotidiano senza inficiarne la morale. Sangue siciliano, educato alla fatica del nord. Se da ragazzo aveva avuto le sue feste e le sue cadute, era stato un periodo breve, per il resto davvero metteva insieme le anime di Peppone e Don Camillo e le applicava al campo. Doveva diventare ragioniere e non seguire le orme del padre calciatore, se un allenatore, Forghieri (niente a che vedere col progettista della Ferrari), non l’avesse infilato in una partita del Carpi (dove segnerà 23 gol, in due stagioni): «Venni convocato per la panchina. Si infortunò l’ala destra, entrai io, segnai e vincemmo. Nella vita ci vuole fortuna». Quella che era mancato al padre Luciano, che dall’Emilia-Romagna era andato a giocare nel Licata (dove conoscerà una ragazza di Gela, poi divenuta sua moglie e madre di Salvatore): «Mio padre era più dotato di me. Ma era un riverino, anche se giocava centravanti. Io sono più portato al calcio atletico». Combattuto e combattente. Bagni era uno che non trovavi mai pulito o non sudato, che non lasciava il suo spazio o l’uomo – se c’era da tenerne uno – se non per andare a segnare o al massimo per metterla in mezzo e far segnare. Lo vedevi uscire vincente dai contrasti e dai tackle e col pallone ai piedi, sapevi che se c’era un duello nove volte su dieci era lui a vincerlo, tranne quando il duello era con Maradona, claro. 
 
 


Aveva un pragmatismo contadino che servì tantissimo come supporto all’estro di Maradona e alla normalità degli altri. Il campo di calcio era come l’orto, tutto doveva essere in ordine e ad ogni stagione c’era un frutto da tirare su. Fatica, era la sua parola. Uno che compensava quello che gli mancava con una forza di volontà enorme, che vedevi sulla faccia degli avversari, persino quelli che lo odiavano per lo stesso motivo. È il calciatore che gioca di più (record di presenze), e quello che si disperde maggiormente, la sua energia arriva a tutti, come le sue urla. È l’irriducibile che rende raggiungibile la bella giornata di Raffaele La Capria che in tempi non sospetti scrive ne “L’armonia perduta” che quella bella giornata è «una gioia che sembra sempre lì a portata di mano» come «una immagine primaria», proprio come lo scudetto, che era lì, poggiato sull’orizzonte, da troppo tempo. È il trascinatore che diventa Don Salvatore per i tifosi, si guadagna il rispetto partita dopo partita, prepotente si tira dietro la squadra nei momenti decisivi, nelle partite di svolta, quando serve c’è, è quello abituato alla trincea, che si nutre nel fango e dei campi pesanti, perché capace di tutto, in ogni situazione, senza smarrirsi. Se la cava in tutte le situazioni, gomiti alti e andare, pallone da non perdere mai e andare, pallone da strappare anche a morsi e andare. «Il mio carattere è quello che ormai tutti conoscono, ed è stato la molla della mia carriera, per cui me lo tengo ben stretto, anche se qualche volta mi è costato anche una squalifica». Se non reagisce né protesta, Bagni, diventa il lusso a centrocampo per il Napoli, tanto che quando la Juventus comincia a corteggiarlo dalla piazza napoletana si levano proteste come per il tesoro di San Gennaro, alla pari delle offerte del Tottenham per Maradona. 
Salva, Salvatore Bagni, è l’umano da difendere, rispetto al disumano Maradona, è il calciatore comprensibile, spiegabile, razionale, l’uomo di buona volontà, rispetto al superuomo argentino, e per questo da custodire con più forza, perché vicino. E, lui, sente questo calore, al punto che si scioglie e comincia a parlare da capopopolo, a promettere di finire la carriera a Napoli (poi non ci riuscirà, per una storia più grande e ancora tutta da scrivere e chiarire), ma è sincero quando lo annuncia. Ardore, ritmo, lucidità, col passare delle partite, diventano i giudizi ricorrenti, come si vedevano cambiare le facce quando Bagni innestava la marcia e la partita svoltava. Il suo è stato un campionato lento, prima in recupero per l’estate in Nazionale, e vari acciacchi, e poi il riscaldamento e infine l’andare potente, con beneficio di tutti. Infatti, è anche l’uomo del Napoli che attira le antipatie degli avversari, il calciatore che va a discutere, e quello che corre a difendere gli altri. Un po’ patriarca un po’ fumetto, a volte sopra le righe altre di una generosità dilagante. Suda, soffre e si svuota, e poi riparte, Salva, Salvatore Bagni, non lascia nulla all’improvvisazione, ma lavora tantissimo su se stesso, sa che nessuno gli regalerà niente, e l’unica arma che ha è la costanza, l’incremento della forza, lo stupore costruito gesto dopo gesto, emersione dopo emersione, fino all’ultimo secondo, all’ultima partita, all’ultimo pallone. 
Lui spala carbone anche se gioca a calcio, senza rassegnazione insegue la prestazione virile, tenta di surclassare tutti – compagni di squadra e avversari – nell’esercizio della propria ascesa. E c’è riuscito. Ora che vaga per i campi del mondo a guardare gli altri, conserva quell’ansia da prestazione, non ha mai tempo se non per calcio e famiglia, proprio come quando giocava. È rimasto il ragazzo inquieto che occupava il centrocampo, quello delle urla da uomini in mare, il mozzo sempre pronto a spendersi e buttarsi tra le onde, balena o no, pallone o meno, lui c’era, c’è, ci sarà. 
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