Quando leggende e antiche favole vengono rilette, rielaborate alla luce della propria epoca: l’archetipo gioca con ogni fase della storia, si combina con ogni latitudine. Perciò convince l’idea del fotografo napoletano Diego Santangelo di ripescare il topos di cappuccetto rosso, mescolarlo e tuffarlo tra l’hinterland casertano e la costa flegrea in “’A muzzarell'”, esordio alla regia di un lungometraggio, ma non prima volta dietro la telecamera: da autore di immagini per la moda Santangelo ha firmato decine di spot e curato i backstage del calendario della SSC Napoli, oltre a diverse incursioni autoriali.
Scritto con la figlia Naomi Sally, il film è stato girato in una manciata di giorni a (quasi) costo zero, e ha arruolato, alla maniera dei neorealisti o del guerrilla movie, un cast di attori non professionisti tra cui si vede qualche volto noto e alcune interpretazioni impeccabili, tra cui quella delle stiliste Anna Palladino e Angela Solla. È lei, la titolare della nota casa partenopea di abiti di sposa, la nonna della fiaba cui i giovani protagonisti devono portare la mozzarella del titolo perché è in punto di morte.
Il padre di Daniele Aiello, muscoloso casaro, incarica il piccolo di aiutare a realizzare l’ultimo desiderio: ed è la stura per un viaggio iniziatico, molto onirico, magari aumentato dall’uso di stupefacenti cui il giovane cede all’inizio della vicenda insieme a un amico, un tipico Lucignolo.
Il film è prodotto da Naomi Sally Santangelo e Beniamino Manferlotti di Santangelo Media Studios, con il supporto del ministero della Cultura e del festival Corto Flegreo, il patrocinio del parco archeologico dei Campi Flegrei e del Comune di Pozzuoli: ha coinvolto più di 60 figurazioni ed è stato realizzato in soli otto giorni di riprese su oltre di 400 km di strada. Sulla fotografia impeccabile, nitida e curatissima, dalla luce ai movimenti di camera, non si potevano avere dubbi, conoscendo la carriera di Santangelo. L’ispirazione, che in modo più o meno volontario guarda a Matteo Garrone e Edoardo De Angelis, evoca le prime prove di Jonas Carpignano, con citazioni – forse fortuite – da “Blanca nieves” di Pablo Berger 2012, in chiave meno gotica e più sociale.
Anche se la finalità del lavoro mira all’allegoria piuttosto che alla denuncia: i movimenti rituali della giovane modella Martina Varriale che danza mentre il compagno si impegna nella ricerca, come presa da incantamento, rapita da una consapevolezza “altra”, emulando i balletti ipnotici di certe pin up di Russ Meyer, portano il piano sull’allucinato. Sarà compito di una sorta di donna angelo che i ragazzi trovano verso la fine, tra le macerie dell’Italsider, chiudere il cerchio sul senso, una volta si sarebbe detto il messaggio: l’infanzia deve riprendersi il mondo che il sistema di consumi ha stuprato.
Operazione che nella sua essenzialità recupera poesia e freschezza, potenza nei quadri proposti, dalle sequenze vivide del degrado ai colori degli interni kitsch ai panorami abbacinanti, nella sospensione tra baratro in terra e paradiso sullo sfondo, nella prepotente bellezza dei due protagonisti, unica possibile risposta al declino, anche spirituale, di una terra. E non è un caso che sui titoli di coda compaia una frase dal vangelo secondo Matteo (riferimento a Pasolini?): “I risorti sono come angeli nei cieli”.