Giogiò Franchini, parlo di me: «Il montaggio è sovrano, il racconto magico dell'Italia in Coppa David»

Giogiò Franchini, parlo di me: «Il montaggio è sovrano, il racconto magico dell'Italia in Coppa David»
di Angelo Carotenuto
Sabato 2 Luglio 2022, 12:00
6 Minuti di Lettura

Quando Adriano Panatta parla, Paolo Bertolucci alza gli occhi al cielo, e se Corrado Barazzutti si infiamma, c'è Tonino Zugarelli che si accoda. Quarantasei anni dopo la vittoria in Coppa Davis, il tennis italiano ha trovato i suoi Soliti Ignoti nel documentario Una Squadra. «È come se fossero seduti tutti intorno allo stesso tavolo, anche se le interviste sono state girate in tempi e modi diversi. È una delazione continua sulle risposte di un altro. Il montaggio è sovrano».

La voce è quella di chi ha esercitato la monarchia, Giogiò Franchini, 63 anni, David di Donatello 2008 con La ragazza del lago, montatore per Paolo Sorrentino e Jonathan Demme, Antonio Capuano e Sergio Rubini.

Due anni fa The Last Dance sui Chicago Bulls di Michael Jordan fece nascere in molti l'ossessione di prendere quella scia. Se Una Squadra arrivasse dall'America, suggerirebbe la stessa voglia di farne l'origine di un filone. Ma il lavoro di Domenico Procacci è un'opera irripetibile. La scrittura è tutta nel taglia e cuci di Franchini alla moviola.
«All'inizio ogni tennista avrebbe dovuto avere una sua puntata. Invece il gioco del raffronto continuo è la chiave che ha reso il lavoro unico. Un uso volutamente eccessivo. È una storia che le nuove generazioni conoscono poco, con una serie di straordinari attori capaci di tempi comici imprevedibili. È come una commedia all'italiana, un genere che ho imparato con il tempo. Passavo per lo specialista di film d'essai, io stesso non mi sentivo pronto abbastanza».

Come ha imparato la commedia?
«Con Claudio Bisio. Con Benvenuto presidente. Lasciandomi guidare, seguendo i suoi tempi, senza modificarli. Con Panatta è stato lo stesso. È un attore comico nato. Alla Gassman. Siamo stati dei privilegiati a ottenere da Sky una totale libertà nella lavorazione».

Lei gioca a tennis?
«Mio nonno e mia madre sognavano che io diventassi tennista. Abitavamo a viale Gramsci, vicino al circolo, ma io ho sempre amato il calcio, continuo a giocarlo nel torneo intersociale con i Scaramuzza Cuba Libre. Sono solo arretrato a centrocampo. Rimane la vera attività capace di svuotarmi il cervello, ogni mercoledì sera, anche d'inverno, al freddo, sotto la pioggia, sui campi di Agnano, agli Astroni. Durante il lockdown, a lungo non si è potuto giocare. Dovevo inventarmi qualcosa.

Ho chiamato il maestro di mio figlio. Non avevo mai preso lezioni, qualche volta la racchetta sì, su un campo in pineta a Baia Verde, dove da ragazzo andavo a villeggiare. Armando Paesano mi ha istruito per un paio di mesi e alla mia prima partita, un doppio, in uno degli ultimi colpi, mi sono rotto il tendine d'Achille, a distanza di trent'anni dalla prima volta. Ho iniziato a montare Una Squadra con le stampelle. Questo è il tennis, per me».

Chi è un montatore?
«Il primo rappresentante dello spettatore. La grande fatica è conservare la verginità dello sguardo, anche alla decima volta che vede una scena. È per questo che non controllo mai i giornalieri in lavorazione. Il montatore è lo spirito critico. Non partecipa al coro del set, dove tutto è bello tra persone radunate intorno allo stesso progetto. Un montatore pone dubbi. Esclude, taglia, aggiusta. Alessandro Baricco dice che nella vita esistono tre figure con cui è dato raggiungere un livello di vera, incondizionata intimità, senza fare sesso: il fisioterapista se ti spacchi un ginocchio, il confessore se sei cattolico, il montatore se fai il regista. Aggiungo l'analista. Se non sei disturbato non fai il regista. Se non sei disturbato e paziente non fai il montatore».

Lei quanto è paziente?
«Antonietta De Lillo mi chiama il dittator gentile. Oppongo resistenze in maniera morbida ma erma. Sono un montatore di pancia, questo lavoro è più sentimento che tecnica. Ogni tanto mi dico che dovrei respirare, se non smettere, poi arrivano cose a cui non vuoi rinunciare, e riparte il gioco di smontare e rimontare. Prima d'istinto. L'approccio intellettuale viene dopo. Alla moviola di un documentario è come passeggiare in un paese dei balocchi, completamente libero nella costruzione del racconto. È la situazione più creativa che si possa desiderare».

Orson Welles ha detto: il montaggio è tutto.
«Sono d'accordo. Anzi: può tutto. Secondo Kubrick, tutto quanto lo precede è solo un modo di produrre una pellicola da montare. Tanti registi non lo amano. Prevale la paura che la manipolazione sia eccessiva. Il montaggio è per eccellenza lo strumento della manomissione. Per sua natura deve rischiare, mediando - certo - con la sensibilità del regista. Luciano Ligabue lo chiama il calciomercato. È uno scambio: tu ti prendi questo, io mi tengo quest'altro».

C'era molto cinema, a casa sua, da bambino?
«Per niente. Papà faceva l'avvocato, aveva una cinepresa da 8 millimetri e girava i filmini in vacanza, con me e le mie due sorelle. La conservo nello studio a Napoli. Mi piacerebbe rendergli omaggio. La mia vita da spettatore, e quindi da montatore, è cominciata nei pomeriggi in sala con lui, appassionato di western. Così iniziai anch'io a fare le ferie con un super 8 in borsa. Da ragazzo mandai un corto a Spazio Italia, si chiamava Strap, recitava mia moglie. Ho sognato a lungo di girarne uno tratto da Borges».

Non si desidera di fare il montatore, da bambino, vero?
«Dal diploma ai trent'anni ho fatto teatro. Il light designer. Sono tra i soci di Galleria Toledo, segnalai la sede a Laura Angiulli quando cercavo casa e negli annunci trovai la sala dismessa del cinema Corallo. Ho iniziato con lei, finché De Lillo, Magliulo, Capodanno e Calabrese mi chiamarono alla fondazione di Megaris. Non volevano un esperto, ma una visione del mondo, uno con cui crescere assieme. Facemmo un salto nel buio reciproco. Misero una Rolls Royce in mano a un ragazzo. Per due anni ho studiato pile di manuali in inglese. Avevamo macchinari raffinatissimi, un mixer video digitale pagato una cifra blu, e all'improvviso arrivò il montaggio non lineare a soppiantare la tradizione. Pianese Nunzio di Capuano è stato il primo film montato a Cinecittà con Avid. Resto dell'idea che se fosse passato da Cannes, Antonio avrebbe avuto un percorso da riconosciuto maestro internazionale del cinema, quale è».

Lo sa che per darsi un tono, all'uscita dalle sale, c'è sempre qualcuno che dice: il film era lento?
«Io vengo accusato del contrario. A volte con risentimento. La verità è che questa distinzione ha senso fino a un certo punto. L'ideale è un'alternanza del ritmo, momenti pacati e distesi, altri di improvvise accelerazioni. Sarebbe il mio film ideale».

Esiste un ritmo che si assorbe da Napoli?
«Sergio Rubini una volta mi ha detto che monto i dialoghi come se fossero una musica. Lo fa risalire alle mie origini. Mi piace moltissimo. Walter Murch, il montatore di Apocalypse Now, toglie l'audio per capire se una scena funziona. Io faccio il contrario, il suono mi guida, forse perché da ragazzino ho fatto il dee jay o forse c'entra Napoli. Ho sempre difficoltà a confrontarmi con questa presenza così ingombrante del nostro essere napoletani. Lo sono con discrezione. Nelle case borghesi non si parlava il dialetto. L'ho imparato da grande a teatro. La famosa marcia in più esiste, ma che resti sottovoce. Mi spaventa l'idea che prima o poi arrivi qualcuno a dire: e basta co' sti napoletani». 

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