Sergio Rubini: «Il set per restare normale. Vado da un analista, ma poi mi addormento»

L’attore e regista, protagonista alla Festa del Cinema: «Con Depardieu un rapporto intenso. Con Mel Gibson, fanatico e superficiale, mi trovai male. E mi pagò poco»

Sergio Rubini: «Il set per restare normale. Vado da un analista, ma poi mi addormento»
Sergio Rubini: «Il set per restare normale. Vado da un analista, ma poi mi addormento»
di Andrea Scarpa
Sabato 8 Ottobre 2022, 21:51
7 Minuti di Lettura

Alla Festa del Cinema di Roma, che in fondo sarà un po’ anche la sua festa, sarà presente con tre film: Educazione fisica di Stefano Cipani (nel cast anche Angela Finocchiaro, Giovanna Mezzogiorno, Claudio Santamaria), La Divina Cometa di Mimmo Palladino (con Toni Servillo, Nino D’Angelo, Alessandro Haber), Il Principe di Roma di Edoardo Falcone (con Marco Giallini, Filippo Timi, Giulia Bevilacqua). A 62 anni Sergio Rubini sta vivendo un momento magico: l’anno scorso come regista ha realizzato l’apprezzatissimo I fratelli De Filippo, di cui sarà girato un seguito, e fra pochi giorni tornerà sul set di Nina dei lupi di Antonio Pisu («Spero di farcela a venire a Roma per la Festa (dal 13 al 23 ottobre, ndr)». 

Da Grumo Appula, 12 mila abitanti in provincia di Bari, come ce l’ha fatta ad arrivare fin qui?
«Con l’incoscienza. A 18 anni sapevo solo di voler fare l’attore. A 39, però, finito in analisi perché pensavo di non avere coraggio, il terapeuta mi spiegò che partendo per Roma, da solo e con quattro straccetti in una busta, in realtà ne avevo avuto tanto».

Qual era la paura che la spinse dall’analista?
«Temevo di perdermi.

Venivo dalla fine del mio matrimonio con Margherita (Buy, ndr), da qualche amorazzo sbagliato, ero single, un po’ noto e con quattro soldi in tasca... Iniziai a chiedermi: non mi farà male tutta questa libertà?».

Un po’ si era perso?
«Sì, ma non troppo. Sono sempre andato alla ricerca di punti di riferimento, di perimetri, anche se poi amo sconfinare. Un artista deve farlo sempre».

Va ancora in analisi?
«Sì, due volte a settimana. Ormai da 24 anni. Mi ha aiutato molto, anche se ormai la faccio io a lui. Mi sento così a mio agio che poco fa mi sono anche addormentato. Quando gliel’ho confessato, molto gentilmente mi ha risposto che non era la prima volta».

Parlava di riferimenti: i suoi oggi quali sono?
«I grandi vecchi come Federico Fellini, che ho sempre dentro di me. Per me la sua morte è stata come la caduta di un totem. E poi la mia compagna Carla (Cavalluzzi, sceneggiatrice, 45 anni, ndr) alla quale devo anche i miei film migliori».

Si sente più a fuoco con lei?
«Sì. In fondo quando andai la prima volta dall’analista cercavo senza saperlo un modo per imparare a fidarmi e a credere di più nell’amore senza scappare sempre. Non abbiamo figli ma abbiamo costruito anche dei film, io e lei, e questo ci ha unito ancora di più. E pensare che l’amore avevo iniziato a cercarlo a Oslo. Io fidanzato con una norvegese».

Si trasferì da quelle parti?
«Per un po’. Poi, tornando da un viaggio in Italia, all’improvviso mi fece trovare in aeroporto la lettera con cui mi lasciava. E basta. La donna della mia vita, per fortuna, l’ho trovata a Grumo Appula. Carla è la nipote di un’amica di mia madre. Me la ricordavo bambina - è più giovane di me di 17 anni - ma quando l’ho rivista per caso in un ascensore, ho ritrovato una donna. E non l’ho più mollata. Grazie a lei ho imparato a essere più attaccato alle mie cose e a uscire allo scoperto anche con le parole».

Quali sono, adesso, quelle più urgenti da dire e da difendere?
«Amore, libertà, identità. Quando vedo serie tv americane o tedesche che raccontano al posto nostro gli antichi romani o il Rinascimento, mi sembra terribile. Salviamo la nostra cultura. In Francia lo fanno da sempre».

Come vede il futuro delle sale?
«Gli spazi della socialità sono in crisi e le sale, che amo, non sono al passo di quello che la tecnologia ci offre a casa nostra. Ma il punto è un altro: non bisogna assolutamente far coincidere il destino del cinema con quello della sala. L’essenza di un film è raccontare una storia a qualcuno che vuole ascoltarla. Questa magia non è in crisi, ed è questa che dobbiamo preservare. Che poi si veda nelle sale, sul tablet, a casa, o sul telefonino, fa niente. Il pericolo viene dalle serie tv e da Tiktok, cioè da film interminabili o microscopici. Una storia per dirsi compiuta, e avere un senso, deve iniziare, dire qualcosa, finire. Tutte le altre narcotizzano e basta». 

Non è stato mai tentato dalle serie?
«Recitare è il mio lavoro, se me l’offrissero accetterei perché il mio rifiuto non cambierebbe le cose, quelle cambiano con la politica».

L’esempio conta qualcosa, però.
«Certo. E io quello riesco a darlo con le scelte artistiche che faccio. Il problema è politico: le piattaforme e internet in genere, che hanno preso in mano le nostre vite, devono essere controllate da comitati etici. Non possiamo lasciare le nostre vite in mano agli algoritmi».

È abbonato a qualche piattaforma?
«Sì, più di una. Sono curioso e mi piace essere informato, però spesso mi annoio».

Mai piaciuta neanche una serie?
«Alcune sono fantastiche, ma il film come specchio della nostra vita è un’altra cosa».

È uno smanettone, o sul web ci sta il minimo indispensabile?
«Sono molto connesso, però mi rendo conto che se cerco un paio di scarpe subito dopo mi bombardano di offerte. Non faccio il bacchettone, ma quando uno come Putin, che mi fa orrore sempre e comunque, ci accusa di essere una società decadente che ha messo al centro della scena il mercato e non più l’uomo, penso che sia vero. E tutti noi lo sappiamo, ma nessuno fa niente».

Con la cultura si mangia o no?
«Certo che si mangia. Quella di Tremonti fu la battuta classista di un uomo molto colto. La mia Puglia, grazie al cinema, alla musica e al cibo, è diventata una regione ricca che ha ribaltato il proprio destino. Tutta Italia dovrebbe fare così».

Ultimamente ha tenuto delle lezioni all’Accademia d’arte drammatica di Roma: insegnando cosa ha imparato?
«Che bisogna sempre mettersi in discussione e ricordarsi che conta solo l’esempio. Fellini non mi ha mai detto di non fare tardi la notte o di svegliarmi presto, mi chiamava alle 6.30 per parlare».

Lo sfizio da togliersi?
«Continuare a raccontare le storie che mi appassionano. E rimanere normale. Semplice. Fellini era sempre in strada, a disposizione di tutti. Come Gerard (Depardieu, ndr), collega con il quale ho vissuto anni molto intensi». 

Conti da saldare?
«Con qualche amico perso per strada per qualche fraintendimento. Purtroppo questo è un mestiere che per narcisismo ed egoismo può dividere. E poi non ho ancora fatto i conti con chi se n’è andato troppo presto. Mi manca tantissimo Ennio Fantastichini. Faccio troppa fatica a metterlo fra le persone che non vedrò mai più». 

È vero che Mel Gibson, che nel 2004 la scritturò per “La Passione di Cristo”, anni dopo le fece avere dei soldi in più?
«Per il film ci pagò pochissimo. Evidentemente, dopo aver guadagnato circa 700 milioni di dollari, con un po’ di senso di colpa spedì a me e a tutto il cast un assegno di diecimila euro, nel mio caso quasi quanto il compenso pattuito per il lavoro vero e proprio. Io con lui mi trovai male: troppo fanatico, troppo superficiale, troppo incline a mischiare il sacro con il profano. Quando arrivò l’assegno pensai anche di non accettarlo. E poi...».

Poi?
«Mi telefonò il meccanico: il cambio della macchina era da cambiare...».

Chiudiamo così, tanto è pratico. Anno 2100: lei è morto, Dio esiste davvero e sta per incontrarlo. Come si mette? Come si presenta?
«Mi scusi, forse ho sbagliato indirizzo».
 

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