Ultras, Lettieri: «Io e il Napoli, storia d'amore e di un destino già scritto»

Ultras, Lettieri: «Io e il Napoli, storia d'amore e di un destino già scritto»
di Diego Del Pozzo
Mercoledì 4 Marzo 2020, 08:03
4 Minuti di Lettura
Calcio e violenza, senso di appartenenza e fede cieca, tribù metropolitane e aggregazione sul territorio, azioni borderline e posizioni anti-sistema: c'è questo e altro nel frastagliato universo del tifo organizzato che, con sguardo puntato sulla sua Napoli, il trentacinquenne regista partenopeo Francesco Lettieri ha scelto di raccontare nel lungometraggio d'esordio, che s'intitola «Ultras» e sarà distribuito in tutto il mondo da Netflix sulla propria piattaforma on line dal 20 marzo. Prima, però, il film sarà nei cinema italiani come evento speciale, da lunedì a mercoledì, con regista e cast che lunedì 9 marzo alle 21 al cinema Metropolitan di Napoli saluteranno il pubblico prima della proiezione.

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Lettieri è uno tra i più apprezzati autori italiani di videoclip musicali. Negli anni, ha diretto quelli del misterioso rapper incappucciato Liberato e, tra gli altri, di Calcutta, Motta, Thegiornalisti, Emis Killa, Nada. In «Ultras», un Netflix Original realizzato in associazione con Mediaset e prodotto da Indigo Film, narra la storia di un cinquantenne ex capo-ultras napoletano, Sandro detto O Mohicano, che decide di cambiare vita alle soglie dei cinquant'anni, dopo aver subito un Daspo e aver conosciuto Terry, donna bella e indipendente che risveglia in lui sentimenti nuovi. Intorno a loro ruotano tre generazioni di ultras e, soprattutto, il sedicenne Angelo, che considera gli Apache la sua famiglia e Sandro una guida. Nell'ottimo cast, spiccano i protagonisti Aniello Arena (Sandro), Ciro Nacca (Angelo), Antonia Truppo (Terry) e poi Simone Borrelli, Daniele Vicorito e Salvatore Pelliccia (gli altri ultras Pechegno, Gabbiano e Barabba).

Lettieri, da dove nasce l'idea di «Ultras»?
«Dalla mia passione per il calcio e da un video di qualche anno fa mai realizzato per Frosinone di Calcutta. Da lì arriva il personaggio del Mohicano, che poi ho spostato a Napoli per raccontare la storia d'amore tra un uomo e la sua squadra del cuore in un mondo violento, ma anche il suo tentativo di provare a sfuggire a un destino già scritto».

L'ambientazione a Napoli deriva anche dalla sua fede calcistica?
«Sono tifosissimo del Napoli da quando avevo 17 anni. Era il periodo del fallimento e rimasi affascinato da quella squadra allora derelitta, che iniziai a seguire in curva, abbonandomi già in Serie C. Anche dopo essermi trasferito a Roma per studiare, ho continuato a venire al San Paolo e ancora oggi ho il mio abbonamento in curva, pur senza aver mai fatto parte di gruppi ultras. E spero di poter continuare tranquillamente a vedere le partite in curva anche se dovessero nascere polemiche intorno al mio film».

Come s'è avvicinato al tema del tifo organizzato?
«Grazie alla visione di Estranei alla massa, un bellissimo documentario di Vincenzo Marra sul fenomeno ultras mostrato dall'interno, senza mai giudicare né lasciarsi andare a facili moralismi. Io ho cercato di fare lo stesso, anche se in realtà quel contesto m'è servito più per narrare storie di esseri umani e concentrarmi sui personaggi, soprattutto Sandro e Angelo, il cuore del mio film. In generale, il tema del calcio è un espediente narrativo per raccontare i concetti di fede e di tribù. Anche per questo, il film inizia e si conclude all'esterno di una chiesa».

Ma com'è cambiato negli anni il fenomeno ultras?
«Rispetto agli anni Ottanta e Novanta, è molto cambiato ed è diventato più chiuso e violento. Oggi vive un momento di crisi, a causa della stretta sulle trasferte e sulle modalità di accesso agli stadi. Comunque, resta un mondo che presenta differenze enormi da città a città. A Napoli, per esempio, un intero territorio ha un'unica squadra di riferimento, che è anche un simbolo di riscatto del Meridione».

La storia del sedicenne Angelo fa tornare in mente quella di Ciro Esposito, il giovane tifoso del Napoli ucciso a maggio 2014. In che modo la realtà entra nel film?
«Ho guardato alla realtà al di là dei singoli episodi, perché la violenza e le morti fanno parte del fenomeno ultras. Però, non ho mai voluto forzare concetti generali oltre ciò che il film intendeva narrare, cioè le storie dei personaggi. La scelta di mettere in scena tre generazioni del gruppo degli Apache mi è servita proprio per problematizzare meglio quell'universo, che non ho voluto né mitizzare né giudicare ma soltanto raccontare in un modo verosimile legato alla realtà, affascinato anche da un'iconografia funzionale a un film che ha un preciso stile visivo, costruito col mio direttore della fotografia Gianluca Palma e i collaboratori con i quali lavoro da anni».

Anche il lavoro sulle location e sulle musiche è di grande interesse...
«In entrambi i casi, volevo mostrare una Napoli poco vista e originale, lontana dai gomorrismi e dalla cartolina. Perciò, ho girato molto nell'area flegrea, tra Baia, Bacoli e Pozzuoli, provando anche a connettere i luoghi dei miti greco-romani alla contemporaneità metropolitana. Con le musiche sono andato nella stessa direzione, poiché Liberato è pienamente contemporaneo e la sua colonna sonora si muove tra passato e futuro».
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