Bob Dylan, i dipinti da film del signore delle canzoni

Bob Dylan, i dipinti da film del signore delle canzoni
di Federico Vacalebre
Lunedì 3 Gennaio 2022, 12:00
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Gli ottant'anni compiuti il 24 maggio scorso Dylan li ha festeggiati alla sua maniera: tornando sul palco, prima per la straniante quanto emozionante performance on line di «Shadows kingdom» dedicata alle sue prime canzoni, quindi finalmente con un pubblico in carne ed ossa ed un repertorio composto soprattutto dai brani del suo ultimo capolavoro, «Rough and rowdy ways». Felici di aver ritrovato Sua Bobbità alle prese con il suo «Neverending tour» - alla sua età ha pianificato concerti per quattro anni, sperando di non essere fermato di nuovo dalla pandemia - più che di averlo visto vendere il suo prezioso catalogo, i dylaniani dylaniati si trastullano in questo periodo con un nuovo gioco, innescato dalla mostra dedicatagli al Frost Art Museum di Miami.

L'uomo più premiato del Novecento (ha vinto il Nobel, l'Oscar, dieci Grammy, il Polar Music Prize, il Premio Principe delle Asturie, il Pulitzer...) ha esposto per la prima volta una nuova serie di dipinti, una quarantina, recenti, mai visti prima, accanto a quasi duecento pezzi, tra disegni, sculture (i suoi ormai celebri cancelli di ferro), acquarelli. «Retrospectum» il titolo, geniale, di una personale nata per il Mam di Shangai, probabilmente la più ampia, anche perché copre sei decadi, mai dedicata al genio di Duluth. «È stato celebrato in tutte le maniere come scrittore, compositore, cantante, performer e così via. È tempo che il pubblico scopra anche il suo ultimo volto», spiega il curatore Shai Baitel

Si inizia con gli schizzi a matita degli anni Sessanta che illustrano capolavori come «Highway 61 revisited» e «Rolling Stones», si passa per i tentativi astratti degli anni Settanta, si arriva ai suoi «ironworks», ricercatissimi cancelli metallici, per restare sorpresi di fronte al suo lavoro di pittore degli ultimi 15 anni.

Una tela gigante mostra un tramonto della Monument Valley al confine tra Utah ed Arizona: l'immagine ricorda qualcosa, poi leggi che mister Zimmerman confessa la sua ammirazione per John Ford, che ha usato il panorama in diversi dei suoi film.

E nella stanza della serie «Deep focus» le fonti ispirative, e con loro il gioco dei dylaniani dylaniati, diventano più chiaro, sin dal titolo che fa riferimento a una tecnica cinematografica di «pan focus». «Tutte queste immagini vengono da film», spiega Dylan, «cercano di evidenziare le diverse difficoltà in cui si trovano le persone. I sogni e gli schemi sono gli stessi, la vita mentre ti viene incontro in tutte le sue forme».

C'è una jazz band che suona in un club. Un uomo dai capelli grigi che conta mazzette di dollari. Due tipi che combattono in un incontro di boxe. Una donna che siede da sola in un bar bevendo e fumando. E, sì, ti viene in mente subito Edward Hopper. E, sì, i dylaniani dylaniati giocano ad identificarle una per una quelle immagini: da dove vengono, dove Bob le ha viste, quali film lo hanno segnato. L'uomo in giacca nera di pelle che prende il caffè è il Willem Dafoe di «The loveless» (Kateryn Bigelow, 1981). L'uomo che ordina da mangiare a un carrettino di street food in Times Square è il Richard Roundtree di «Shaft» (Gordon Parks, 1971). I panorami desertici vengono da «Paris, Texas» (Wim Wenders, 1981), naturalmente, quelli metropolitani da «Il braccio violento della legge» (William Friedkin, 1971), e poi ecco tornare in mente immagini da «Alice non abita più qui» (Martin Scorsese, 1975), «L'infernale Quinlan» (Orson Welles, 1958), «Buon compleanno Mr. Grape» (Lasse Hallstrom, 1983), «Il kimono scarlatto» (Samuel Fuller, 1959), «Rain man» (Barry Levinson, 1988)...

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L'America si mostra «like a rolling stone»: dal punto di vista di un viaggiatore. Scorrono insegne lungo la strada, motel, tendoni, benzinai, stazioni del treno... Le immagini umane sanno di solitudini mal riscaldate, di bevute e letti mal condivisi.

Altrove si trovano esperimenti alla Van Gogh di «La stanza da letto», con un appartamento newyorkese visto da diverse prospettive. O alla Monet che seguiva le diverse ore del giorno nella serie dedicata alla cattedrale di Rouen. E, colpo al cuore, i 64 cartelli con le liriche di «Subterranean homesick blues», uno dei primi videoclip della storia. Inutile dire che dal 2008, anno della sua nascita, il museo non aveva mai visto tanti visitatori.

«Queste opere sono state prese dalla vita reale, letteratura, film, canzoni, poesie e poi mescolate, con una certa prospettiva, tutte mescolate insieme in una forma o nell'altra», spiega l'uomo che per primo mise l'arte anche in un jukebox.

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