E venne il tempo di reagire, di affrontare di petto i tempi che stanno cambiando, sì, ma non proprio come sognavamo. Di questo cantano le «Tredici canzoni urgenti» che danno il titolo al nuovo disco - in uscita venerdì - di Vinicio Capossela, coraggioso affondo contro i tempi precari assai che stiamo attraversando. Disco politico come lo erano quelli di Fabrizio De Andrè o gli articoli di Pier Paolo Pasolini, schierato certo, ma non banalmente di parte: «Da anni, sono come tanti, un uomo senza rappresentanza, costretto a votare contro qualcuno o qualcosa che non mi piace, non per qualcuno o qualcosa che mi piace», ammette desolato di fronte a chi vorrebbe costringerlo nella polemichetta quotidiana chiedendogli della Schlein: «È presto per giudicare, aspettiamo un messia che faccia una cosa di sinistra da troppo tempo».
Il cinquantasettenne irpino di Hannover ha costruito il suo disco, bello quanto feroce, volando alto, «pensato per difendere i diritti, il nostro futuro».
Ludovico Ariosto gli ha ispirato «Ariosto governatore», una ballata country «sull’impossibilità degli intellettuali di incidere nei cambiamenti politici», e «Gloria all’archibugio», «una marcia rinascimentale che fa partire dall’uso delle armi da fuoco la disumanizzazione della guerra, il peggiore dei mali, che ci ha condotti agli ordigni di distruzione di massa».
Ma le «Tredici canzoni urgenti» sono canzoni-canzoni, nessuno si aspetti di trovarsi di fronte a un pamphlet, anzi: è un disco suonato (bene), suonatissimo, con tanta musica, con tanti musicisti (Mara Redeghieri, Margherita Vicario, sir Oliver Skardy, Raiz, Bunna, Cesare Malfatti, Alessandro «Asso» Stefana, Taketo Gohara, Mauro Ottolini, Raffaele Tiseo), con tante musiche: valzer, jive, cha-cha, ballate, reggae, suoni antichi e rumori moderni vestono melodie che ritroveremo nelle classifiche dei migliori dischi dell’anno (e delle Targhe Tenco).
La speranza? Sta nell’amore visto come «Il bene rifugio», e qui Vinicio pensa al Céline che «in fuga dalla guerra, mentre tutto va a fuoco, dopo avere perso tutto, mostra il certificato che lo lega a Lucette, sua moglie, come unico documento ancora valido, come sola lettera di credito che abbia ancora un valore». La forza che nasce dalla fragilità, dalla consapevolezza che «quello, e solo quello, possiamo fare». Come conferma la conclusiva «Con i tasti che ci abbiamo»: «Un pianoforte rovinato dai miei nipoti giocando mi ha dato lo spunto per riflettere sul fatto che una melodia si può ottenere anche solo usando i tasti ancora rimasti».
Una frugalità necessaria, come quella di cui parla il suo amico paesologo Franco Arminio, spicca «come un gesto rivoluzionario nella società consumistica evocata dall’ingordigia gastrolatra» di «All you can eat» o dalla rinuncia alla partecipazione attiva di «Il divano occidentale», che orecchia Goethe per andare in ben altra direzione che quella della poesia persiana. «La cattiva educazione» parte da Almodovar per parlare di quel crimine oggi definito «femminicidio» e frutto di una cultura che facciamo fatica a estirpare dalla nostra società maschilista, «collusa con un frainteso e pericoloso uso e abuso della sessualità, del corpo, della violenza e del possesso coperti dalla nebulosa giustificazione, che è in realtà un’aggravante, della parola amore».
Capossela canta «le crisi più stringenti del momento storico che stiamo vivendo: la violenza di genere, la cattiva educazione alle emozioni, l’abbandono scolastico, la delega da parte degli adulti all’intrattenimento digitale in cui versa l’infanzia, la cultura usata come mezzo di separazione sociale, il carcere inteso come reclusione senza rieducazione, il parossismo consumistico generato dal capitalismo predatorio. Un campionario di mali che giunge all’apice nella paura del diverso, nella criminalizzazion e dello straniero, nelle fake news sul pericolo migranti».
Come ripartire? Dalla festa della Liberazione, dal 25 aprile che Vinicio celebrerà a Torino. E prendendo per esempio le «Staffette in bicicletta», «le donne che fecero la Resistenza il cui nome ho visto ricordato su un muro di cemento lungo la pista ciclabile di Scandiano, nella mia terra reggiana».