Morto Antonio Juliano, la storia di un mito del Napoli

Dall'infanzia a San Giovanni a Teduccio a pupillo di Vinicio

Antonio Juliano con Rivera
Antonio Juliano con Rivera
di Angelo Rossi
Mercoledì 13 Dicembre 2023, 10:47 - Ultimo agg. 14 Dicembre, 07:26
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E’ stato il più napoletano di tutti. Antonio Juliano, per tutti Totonno (anche se lui non ha mai capito il perché di questo soprannome) ha fatto e rappresentato la storia della squadra di calcio della sua città. Da calciatore e da dirigente. Mai da allenatore, una strada che non aveva voluto percorrere per scelta, perché appena smesso di giocare, non si era più riconosciuto in quel mondo che lo aveva eletto protagonista assoluto. Napoletano molto atipico, lontano dagli stereotipi tradizionali e folkloristici, niente pizza e mandolino ma solo un rigore assoluto in campo e un ruolo da leader che tutti gli hanno sempre riconosciuto. Trascinatore e anche sindacalista, faro dello spogliatoio, punto di riferimento per chi proveniva da fuori Napoli, ha recitato alla perfezione la parte del partenopeo laborioso, attaccato alla maglia come pochi, innamorato del calcio che gli aveva stravolto la vita di tutti i giorni, quando nemmeno era maggiorenne. Dino Zoff lo ha pennellato alla perfezione: “Totonno era un tipo che mi piaceva moltissimo, uno tosto, persona autentica, con un temperamento da condottiero. Giocava un calcio concreto, senza concedere spazio alla teatralità”. 

Totonno nasce a San Giovanni a Teduccio, periferia industriale della città, sa bene cos’è la fatica perché il papà porta avanti la famiglia gestendo una bottega di salumeria. Gioca, e bene, a calcio da ragazzino nella Fiamma Sangiovannese e come tutti i ragazzini sogna di indossare la maglia del Napoli. La fortuna gli si presenta all’improvviso, sotto le spoglie di Giovanni Lambiase, forse il talent-scout più in gamba della storia azzurra. Lo adocchia durante una partita giovanile, lo segue in qualche allenamento, lo avvicina: se vuoi, ti garantisco un provino e lui corre ad informare il papà. Che nel frattempo aveva trasferito la salumeria a Poggioreale: erano diventati eccessivi i costi per le riparazioni di un’edicola votiva dedicata alla Madonna che il figlio mandava continuamente in frantumi, giocando a pallone per strada ogni santo giorno. Il primo impatto è incoraggiante, entra nel settore giovanile del Napoli e alla Fiamma in cambio vanno pochi palloni e una serie di magliette. La determinazione il temperamento sono le armi migliori sulle quali fa affidamento, si fa le ossa nelle selezioni juniores e “De Martino”, nasce sostanzialmente come mezzala e il suo tocco elegante di palla, soprattutto la precisione nei passaggi, non sfugge a Pesaola. Siamo a metà degli anni sessanta, sta vedendo la luce il “Napoli boom” di Sivori e Altafini, con Fiore presidente, e con esso inizia a splendere la stella di Totonno che illuminerà la scena per sedici campionati, due in B, tutti con la maglia azzurra e con il numero 8 sulle spalle, record di presenze che solo i campioni delle ultimissime generazioni hanno da poco superato. Danapoletano è stato il primo ad essere convocato in Nazionale e l’unico ad aver preso parte a tre campionati del Mondo (Inghilterra ’66, Messico ’70 e Germania ’74).

 

Divenne il pupillo di Pesaola, al quale resterà legato da un rapporto viscerale, di profondo affetto. E’ il “petisso” che lo lancia nella grande mischia, facendolo debuttare a diciassette anni prima in coppa Italia e poi in campionato. Non fu un battesimo felice, perché quella domenica il Napoli venne sconfitto sonoramente in casa dall’Inter ma comunque un punto fermo nella carriera, l’inizio di una lunga storia d’amore perché da quel momento Totonno non avrebbe più mollato il gruppo dei titolari, prendendosi pure la fascia da capitàno nelle prime due stagioni disputate in cadetteria. La porta al braccio anche con Altafini e Sivori, nonostante la giovane età ha stoffa e carattere per orientare la squadra in campo, sa tenere palla, dà a tutti il tempo per posizionarsi, detta i ritmi di gioco, dal centrocampo in su ogni giocata passa per i suoi piedi. Lerici, un tecnico, gli fornì un consiglio assai prezioso: ruba il meglio dai campioni.

Ovvero, fà tuoi i segreti dei fuoriclasse che ti giocano accanto. 

Anni sessanta e settanta, era l’epoca dei registi, Suarez nell’Inter, Rivera nel Milan, Bulgarelli nel Bologna, De Sisti nella Fiorentina. Juliano era faro, capitàno e bandiera del Napoli, uno che pretendeva rispetto e contraccambiava, difensore a tutti i costi della napoletanità intesa come sacrificio e puntualità nel lavoro. Qualità che lo hanno accompagnato per tutta la vita perché dotato di un orgoglio senza fine. E che gli fruttarono le simpatie dei vari selezionatori nazionali: nel ’66 il debutto a Milano con la maglia dell’Italia, in campo nel secondo tempo contro l’Austria. E convocato per i mondiali inglesi: fece parte della lista dei 22 senza però mai giocare. Andò decisamente meglio nella stagione successiva, quando non saltò nemmeno una gara di campionato ed entrò a far parte in pianta stabile della nazionale. Un cammino che lo porterà successivamente a difendere i colori italiani fino alla vittoriosa finale contro la Jugoslavia, che lo incoronò campione d’Europa ad appena 25 anni.

Si interessarono a lui le “big” del campionato, il Milan gli fece una corte spietata e mise sul piatto un’offerta niente male, quasi un miliardo. Barcollò Ferlaino, sapeva che quello era il momento migliore per vendere perché il calciatore era nel pieno della maturità, nel giro della Nazionale e integro fisicamente. Non ebbe il coraggio di esporsi e di mettersi la città contro, allora pensò di trovare un accordo. Andò da Juliano e gli disse: confessa ai giornalisti che vuoi provare altre esperienze, magari in club più forti. Totonno non stette al gioco, era una bandiera, sentiva di esserlo, salvò l’amicizia con Rivera che l’avrebbe voluto al suo fianco nel centrocampo rossonero ma decise di restare e il presidente fece finta di niente.

Veniva puntualmente convocato in Nazionale perché uno come lui non poteva restare fuori, sarà una vittima però della geopolitica calcistica: in azzurro ci sono Mazzola, Rivera, De Sisti, esponenti di club che hanno più soldi e più immagine, soprattutto un differente peso politico. Il rapporto con il ct Valcareggi non è perfetto, Totonno gioca sì uno spezzone della finale del ’70 persa malamente contro il Brasile di Pelè ma non gli basta, non si sente inferiore ai colleghi. 

Il ’75 potrebbe essere l’anno di grazia, al San Paolo si prese in prestito il modello Olanda, Vinicio fu il primo a introdurre nel nostro campionato la zona e il pressing. “Il mio Napoli più bello, Vinicio partorì in laboratorio un capolavoro, tutta l’Italia parlava di noi”. A cinque giornate dalla fine, scontro diretto in casa della Juventus, si giocò per l’aggancio perché i bianconeri erano due punti avanti in classifica. Una gara meravigliosa, nonostante il vantaggio iniziale di Causio: gli azzurri dominarono il campo per possesso palla e azioni create, proprio Juliano pareggiò con un gran destro da fuori area. Il secondo tempo fu un martellare continuo dalle parti di Zoff, protagonista assoluto con due parate decisive. L’ultima dette una svolta alla partita e al campionato: superDino volò per togliere dall’incrocio dei pali un altro siluro di Totonno, il migliore in campo, sarebbe stato il gol dello scudetto. Che invece all’ultimo minuto segnò Altafini in mischia, da quel momento etichettato “core ‘ngrato”. Niente tricolore, l’unico trofeo per Juliano resterà la coppa Italia vinta l’anno dopo contro il Verona in finale (4-0), poco, troppo poco per chi ha scritto un pezzo di storia memorabile.

Nel ’78 se ne andò sbattendo la porta in faccia a Ferlaino, che dopo una sconfitta al San Paolo contro il Vicenza pretendeva di spedire la squadra in ritiro punitivo. Si misero anche i tendini che cominciarono a creargli qualche noia di troppo, l’età c’era (35 anni) ma si sentiva ancora di giocare. Dopo il litigio con Ferlaino ci fu quello con Di Marzio, l’allenatore della Torretta che sedeva in panchina: persa la finale di coppa Italia contro l’Inter, si decise di rivoluzionare la squadra. Di Marzio assecondò il presidente che non voleva più Juliano, confermò a parole il capitàno pur essendo scettico sulle condizioni fisiche. Lui intuì che aria tirava, incontrò l’allenatore al mare, in Sardegna, per fare chiarezza. Anziché la riconferma, il club per non scaricarlo del tutto gli offrì la poltrona da dirigente, come responsabile del settore giovanile. “Datemi la lista, decido io dove andare”. Non seppe resistere al richiamo del vecchio maestro e amico Pesaola, nel frattempo accasatosi al Bologna, dove vivevano anche alcuni amici e se ne andò all’ombra delle Torri, senza aver mai perdonato lo sgarbo di Ferlaino e Di Marzio. Una sola stagione in rossoblù, l’ultima della carriera, la soddisfazione di un gol decisivo contro il Torino per garantire agli emiliani la permanenza in A e poi le fatidiche scarpette appese al chiodo.

Due anni dopo avrebbe inaugurato un nuovo ciclo della sua storia napoletana. Dirigente a più riprese, nel segno della discontinuità per un ruolo preso e lasciato tre volte. In sintesi: Ferlaino aveva sempre la piazza contro e vedeva in Juliano il capro espiatorio perfetto, il parafulmine ideale addosso al quale i tifosi potevano scaricare le loro delusioni. Ha compiuto due capolavori da dirigente: gli acquisti di Krol e Maradona. Il primo pescato nella sperduta Vancouver in Canada, dove l’olandese era andato a farsi ricoprire di dollari per giocare cinque mesi all’anno. L’altro, quello assoluto, l’ingaggio di Maradona, dopo aver piazzato le tende a Barcellona per un mese e condotto allo sfinimento i dirigenti catalani che si convinsero a cedere il fuoriclasse solo all’ultimo giorno di mercato. Due personalità troppo forti, lui e Ferlaino, non potevano proseguire a braccetto, enorme il divario caratteriale. Infatti, al termine della prima stagione napoletana di Diego, presidente e direttore generale incrociarono nuovamente le armi, l’Ingegnere aveva in testa altri dirigenti, dopo poco sarebbe sbarcato un certo Italo Allodi, l’architetto del primo scudetto. I poteri diminuirono, Totonno intuì l’antifona: “Se non comando io, me ne vado”. E così fece, sarebbe tornato in società un’ultima volta nel ’98, cercando di riportare la squadra in A dopo una misera retrocessione ma il progetto con Ulivieri allenatore fallì e andò via con l’abituale, immenso atto di dignità: “Abbiamo sbagliato la costruzione della squadra”.

Poi s’è divertito a fare l’opinionista televisivo senza mai smarrire il concetto di verità, a metà tra il candore e l’apparente ingenuità. Nel 2012 intervenendo da relatore a un convegno sulla lealtà del calcio e le sue regole, l’ex capitàno stupì la platea ricordando quando lui e Rivera nel ’78 si accordarono per un pareggio all’ultima giornata, perché con quel risultato Napoli e Milan avrebbero raggiunto la zona Uefa (la partita finì effettivamente 1-1). Rivera, sorridendo, non confermò e non smentì, semplicemente dichiarò di non ricordare l’episodio.

Quasi mai ha sottratto il tempo necessario all’altro grande amore della sua vita: la famiglia. La moglie Clory compagna inseparabile di una vita, due figli maschi e una femmina, la tenerezza dei nipotini tutti raccolti nella villetta-eremo di Posillipo dove ha sempre vissuto, il suo regno, l’esilio dorato, il posto ideale per continuare a guardare e tifare Napoli con discrezione e apparente distacco. E scambiare ogni tanto due chiacchiere con Enzo Montefusco, forse il miglior amico che il calcio gli ha dato, uno dei moschettieri del centrocampo che Juliano guidava come un direttore d’orchestra fa con la sua bacchetta. Vicienzo gli è rimasto idealmente accanto fino alla fine, per quanto vicino potesse considerarsi un rapporto che negli ultimi anni la malattia di Totonno sembrava voler cancellare. Impossibile perché figli della stessa città e della stessa bandiera.

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