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Carlo Mazzone morto, perché lasciò il Napoli dopo un mese e quel 3-0 in Coppa contro la Lazio

Nella stagione della mortificante retrocessione con 14 punti

Carlo Mazzone ai tempi del Napoli con Marcello de Luca Tamajo
Carlo Mazzone ai tempi del Napoli con Marcello de Luca Tamajo
di Francesco De Luca
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 20 Agosto 2023, 10:21 - Ultimo agg. : 10:24
3 Minuti di Lettura

Trentasei giorni sulla panchina del Napoli, dalla sconfitta con l'Inter a quella con Lecce. «Non potevo più rimanere», spiegò Carlo Mazzone il giorno dopo la sesta e ultima partita. Ne perse cinque, una sola vittoria, ottavi di Coppa Italia contro la Lazio, una serata di pioggia e vento a Fuorigrotta, appena 5mila spettatori. Gli azzurri avevano perso all'andata per 4-0, però con i gol di Protti, Giannini e Rossitto quasi avevano riaperto la sfida. Ballotta parò al 94' il tiro di Bellucci e sfumarono i supplementari. Dopo soli quattro giorni il tecnico chiuse l'esperienza azzurra, la più breve e tormentata della straordinaria carriera di Mazzone, convocato da Corrado Ferlaino, il proprietario del club, e Gianmarco Innocenti, l'amministratore unico, dopo il licenziamento di Bortolo Mutti. Campionato 97-98, il peggiore della storia del Napoli. Quattro allenatori e retrocessione in serie B con 14 punti. Sconfitte, lacrime e veleni, i giocatori costretti a muoversi sotto scorta per le minacce dei tifosi.

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Mazzone era nella sua casa di Ascoli e aveva visto in tv l'ultima di Mutti, battuto per 6-2 dalla Roma all'Olimpico. Un altro avrebbe lasciato cadere l'offerta del Napoli, Carletto no. Corse al Centro Paradiso di Soccavo con i due fidati collaboratori Leonardo Menichini e Massimo Neri. Niente casa, una camera all'hotel Vesuvio, dove incontrava pochi amici come Giulio Pazzanese, suo dirigente nella bella esperienza a Cagliari. E sussurrava i suoi timori, che crescevano giorno dopo giorno. Squadra debole, nonostante gli acquisti del capocannoniere Protti e di giovani talenti come Bellucci, Rossitto e Goretti.

Società ancor più debole a causa delle cessioni effettuate negli anni precedenti per iscriversi al campionato. «Qui è durissima». Le confidenze raccolte dall'avvocato Marcello de Luca Tamajo, dirigente accompagnatore della squadra, e Armando Aubry, il tassista che tutti i giorni lo accompagnava dall'albergo al campo. «Questa squadra neanche San Gennaro la salva», uno sfogo. E quelli del suo staff anticiparono l'addio a un giovane cronista prendendo un caffé alle "Terrazze" di via Petrarca.

Video

L'allenatore, allora sessantenne, aspettava rinforzi. Ne ebbe uno, il Principe Peppe Giannini, che era stato il faro della sua Roma. Ma in azzurro il regista durò pochissimo, come il Maestro. Alla seconda partita del suo ciclo, gli azzurri andarono in vantaggio a Bologna con Goretti, però si scatenò Baggio e i rossoblù vinsero per 5-1. Il Divin Codino, già. Qualche anno dopo venne "respinto" dal Napoli e firmò per il Brescia soltanto perché c'era Mazzone. Quella sconfitta al Dall'Ara, con l'allenatore che lanciò in campo un cuscino per la disperazione, fu già il capolinea.

Si proseguì fino a Lecce, poi il giorno dopo - 24 novembre - arrivò la decisione di dimettersi. Negli spogliatoi dello stadio di via del Mare, uno dei suoi campi del cuore, aveva detto: «Ora basta, la società deve fare qualcosa. La storia dei rinforzi sta diventando una barzelletta». Ma non si aggrappò ad alibi, quando chiuse le valigie nella stanza dell'hotel Vesuvio. «Lascio, mi dimetto. Prendo una decisione in linea con il mio carattere, aspettare non ha più senso. E la storia dei rinforzi non c'entra. Ringrazio tutti i tifosi: vado via anche per non ingannarli. Chiamato al capezzale di un ammalato non sono riuscito a guarirlo. Mi sembrava immorale restare qui», spiegò al telefono dalla casa di Ascoli. Un vero galantuomo del calcio, come ha ricordato nel suo tweet De Laurentiis.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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