Morto Carlo Mazzone, quelle 4 partite al Napoli: «Manco San Gennaro li può salvare»

La carriera del tecnico romano scomparso a 86 anni

Mazzone e Giannini ai tempi del Napoli
Mazzone e Giannini ai tempi del Napoli
di Marco Ciriello
Sabato 19 Agosto 2023, 16:24 - Ultimo agg. 20 Agosto, 10:21
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Un Ferguson da bar, anche se non ha coppe in bacheca, che si porta dietro l’animosità delle carte da gioco applicata al pallone e il fumo delle sigarette che lo avvolge come nuvole da fumetto.

Per Carlo Mazzone quasi 800 panchine in serie A e più di 1000 se contiamo anche C e B, un mucchio di campioni allevati e cresciuti come figli, tante stagioni senza mai perdere l’entusiasmo, mettendo a fuoco l’adesione a una vita di contrabbando all’assalto della partita migliore.

«In questi giorni sto ricevendo tantissimi messaggi e telefonate da parte di amici, addetti ai lavori, da numerosi miei ex calciatori, ma anche sostenitori delle squadre che ho allenato e la cosa mi ha fatto tanto piacere. Significa che ho lasciato ovunque un buon ricordo» disse in occasione dei suoi 80 anni. Perché Mazzone è uno che ha sempre lottato, partita dopo partita, in un universo traballante, senza mai avere a disposizione grandi squadre, ma creando e scoprendo grandi campioni. «Dicevano Mazzone è il Trapattoni dei poveri. Rispondevo: amici miei, Trapattoni è il Mazzone dei ricchi».

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Rimanendo con una grande curiosità che riassume il suo mondo: «Cos’avrebbe combinato Eriksson all’Ascoli?» Rispondendosi anni dopo da solo: «So cos’ho combinato io all’Ascoli: giocavo col 4-3-3, spesso a zona, e non se n’è accorto nessuno. La soddisfazione è stata che i tifosi hanno ribattezzato la via che porta allo stadio, quella che passa sopra il ponte, Via del Bel Calcio». All’Ascoli e soprattutto a Costantino Rozzi deve tutto, dopo un infortunio che gli fa chiudere in anticipo la carriera di calciatore e gli apre subito quella di allenatore a trent’anni. Il resto è corsa per colmare il deficit dovuto al salto, mai improvvisazione, anzi.

Fin da subito diventa un addestratore, che ti insegna a vivere e giocare, e se stai attento – come Pep Guardiola che poi gli dedica una Champions League – anche ad allenare; è il calcio passato, quello che portava in panchina la provincia – e si vedeva – senza giacca e con i congiuntivi fantozziani, ma con un carico di intuizioni che prima di essere tattiche erano umane.

Un maestro elementare che in certe domeniche, poi anche stagioni, dava i punti ai professori universitari. Che lui sintetizzerà così: «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri». Quelli come lui sono paragonabili alle friggitorie, per come devono arrangiarsi e tirare fuori il meglio da un olio assurdo con ingredienti di battaglia. Però, impasta qua, prendi quello, mettici questo, finisci per essere ricordato da tutti, e i tuoi sforzi diventano pure scuola. «Io come cuoco ho cucinato di tutto e senza mai rifornirmi al mercato delle prime scelte». Cresciuto nella Roma neorealista tra macerie e speranza, fame e voglia di riscatto, e col rimorso di essere l’unico in famiglia che mangia la carne perché deve correre e sudare, correre e portare il resto: quello che trova per apparecchiare.

Mentre Anna Magnani corre per Roberto Rossellini, lui corre per la Roma. Per questo prima di palleggiare o piazzare tre dietro, a Trastevere, Carlo Mazzone, impara a trattare con gli altri, a riconoscere i ragazzi che poi diverranno pure campioni. Se sei stato sotto le bombe poi sotto le curve ci corri senza paura, se sei cresciuto marcando la fame è con quella che misuri le stagioni e non ti monti la testa, nemmeno quando prendi coscienza che sei l’unico a comprendere il più grande talento del calcio italiano: Roberto Baggio; con le sue cicatrici bene in vista, di cui tutti parlavano e nessuno teneva conto: Lippi, Sacchi, Maldini, Trapattoni, Ancelotti, Ulivieri, e un mucchio d’altri, solo Mazzone – uno abituato alla scopa – vide che era un re di denari.

Lo mise sul tavolo e lasciò fare, niente più spizzichi e bocconi, ma la libertà di avere il pallone tra i piedi come gli pareva a lui. Dopo il sangue delle operazioni, il ghiaccio delle riprese, il sudore dei sacrifici, c’era finalmente solo da giocare. E ridere. Grazie a quello che sembrava il meno riflessivo dei coach, l’allenatore scomposto con troppo accento in conferenza stampa e ancora il carico di bestemmie a bordo campo. In quel Brescia allenato da Carletto Mazzone (venerato maestro con riserva, dovrebbe essere senatore a vita) giocano oltre Baggio anche Pep Guardiola – che è un po’ il Barack Obama del pallone – e Andrea Pirlo, che Mazzone sposta, arretrandolo dietro Baggio, con una intuizione che vale una carriera: mossa che porterà principalmente qualche scudetto e una Champions League al Milan e un Mondiale all’Italia. Ed è paragonabile, per benefici e vittorie, all’arretramento di Alfredo Di Stefano nel Real Madrid.

È nei dettagli che sta il calcio di Mazzone, un calcio che comincia prima dei campi, prima degli spogliatoi, negli sguardi con i suoi, dove i suoi sono gente come Giancarlo Antognoni e Antonio Di Gennaro che allena alla Fiorentina; Claudio Ranieri e Massimo Palanca al Catanzaro; Walter Novellino e Andrea Mandorlini all’Ascoli; Antonio Conte e Francesco Moriero al Lecce; Giuseppe Signori al Bologna; Francescoli al Cagliari; e poi alla Roma aveva Abel Balbo, Mihajlovic e soprattutto Francesco Totti, che merita un discorso a parte.

«Nel mio periodo sulla panchina della Roma mi ha dato enormi soddisfazioni. Ho avuto da subito la sensazione che fosse uno dei migliori, ma l’ho nascosto, non ho avuto pubblicamente grandi slanci nei suoi confronti: Roma è una città molto difficile calcisticamente e ho sempre avuto l’istinto di difenderlo, tenendo per me le idee che avevo su di lui. È stato un onore essere stato il suo allenatore». C’è tutto: il padre, l’allenatore e il tifoso.

Mazzone è un manuale del calcio orale. Mettendo in fila le sue squadre, le sue partite e le sue dichiarazioni si può scrivere la storia del calcio italiano visto dalla periferia, è uno che col Perugia toglie lo scudetto alla Juventus per regalarlo alla Lazio in un nemesi pallonare che si realizza negando la fede di chi la realizza; che attacca la Gea e Moggi, ed è lo stesso che offeso pesantemente dai tifosi dell’Atalanta mentre perde, promette di affrontarli al pareggio, – «Se famo er terzo vengo sotto la curva» – che arriva, dal 3 a 1 si passa al 3 a 3 – quando si ha Baggio in squadra son cose che succedono – e lui corre sotto la curva avversaria come un ragazzino, tanto che persino Michele Serra si scomoda a difenderlo: «Ma era impossibile non riconoscere, nella reazione indignata di un uomo anziano davanti a una marea di giovani insultanti, la dignità (finalmente!) di non farsi più insultare... Il “basta!” di Mazzone, così goffo e solitario, ha espresso efficacemente la vergogna collettiva di avere sopportato tutto questo, anno dopo anno, violenza dopo violenza, morto dopo morto, con vile indifferenza». Mazzone è sempre stato se stesso, non ha mai nascosto nulla, né recitato parti, non si è preoccupato dei contesti o fatto intimorire dagli stadi: era quello con la visione appropriata – e spesso moderna anche se non vista –, gli sarà mancata la calma di Liedholm, ma aveva l’irruenza di chi sa mettere in campo una squadra e magari togliersi delle soddisfazioni. Non gli sono mancate le cadute.

Al Napoli durò un mese, subentrando a Bortolo Mutti e trascinandosi dietro Giuseppe Giannini, ma era una brutta brutta stagione (‘97-‘98) e lui per una volta mollò dicendo: «Questa squadra non la salva nemmeno San Gennaro», e infatti retrocesse. Persino lui che aveva passato trent’anni a far rendere calciatori sotto ogni aspetto si arrese. Senza farne un dramma, conservando la sua estraneità al sistema.

Uno costruito da solo, arrivato con le sue gambe e la sua capacità in serie A, senza aiuti. Uno che non va alle Maldive, ma  trascorre le vacanze ai bagni Nadia di San Benedetto; uno che ha la moglie Maria Pia, che lo aspetta per cenare; uno che non va in tivù a commentare e che per il suo compleanno decide di stare in famiglia, di festeggiare in forma privata, di non parlare; uno di un altro tempo, che non ha mai confuso il gioco con la finzione.

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