Enzo Avitabile, “Salvammo 'o munno” compie 20 anni: «Non si vive soltanto di canzoni usa e getta»

​«Volevamo cambiare il mondo e non ci siamo riusciti. Anzi: vogliamo cambiare il mondo e non ci riusciamo»

Enzo Avitabile
Enzo Avitabile
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Giovedì 16 Maggio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 17 Maggio, 07:28
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Ci sono dischi che durano, che segnano il tempo in cui sono usciti, ma continuano a portare il tempo anche dopo. «Il sound è attualissimo ma, purtroppo, anche i temi che affronto», riflette tra l’orgoglioso e il desolato Enzo Avitabile che domani, a vent’anni dall’uscita di un album che ha segnato una svolta nella sua carriera, pubblica una riedizione rimasterizzata, in vinile e in digitale, di «Salvammo ‘o munno». Il cd fu pubblicato, a prezzo politico e con successo, dall’etichetta discografica de «il manifesto». Arrivò a vendere 55.000 copie, con un’edizione inglese e quattro nomination ai Bbc World Musica Awards. 

Un disco, scrivemmo allora, «frutto di una lunga ricerca, di una nuova consapevolezza umana e artistica, di un travaglio doloroso. Il soul brother partenopeo dopo la scomparsa della moglie ha cercato conforto nella musica, quasi tentando di stordirsi sul palcoscenico». «Addò» (1994) e «O-issa» (1999) avevano iniziato il percorso: «Mi stavo de-americanizzando, stavo riscoprendo da dove venivo, chi ero, stavo componendo in sottrazione invece che in addizione».

Tutto era iniziato con i Bottari di Portico: botti, tini e falci, usati come percussioni nel casertano fin dal tredicesimo secolo. Ma, dopo aver guardato nel suo giardino, Avitabile aveva rivolto gli occhi «ad altre culture tradizionali, sempre lontane dal cuore dell'impero globale, per parlare del sogno di un altro mondo possibile». Il mondo della brass band egiziana di Bachir Mizmar, dell'italiano del Mali Baba Sissoko. «Salvamm’’o munno» era, ed è, un disco ecologico, pacifista, militante, «grido di un pianeta violato, preghiera profana e panteista sotto forma di invito alla danza». Tanti i duetti, anzi i dialoghi: con l’algerino Khaled in «Abball''ccu’me»; con l’oud del palestinese Simon Shaheen in «Tutte eguale song' 'e criature»; con il flicorno sudafricano di Hugh Masekela in «Chest’è l'Africa»; con le launeddas sarde di Luigi Lai ed i Cantori del Misere di Sessa in «’A peste»; con il sassofono camerunense di Manu Dibango nel brano che dà il titolo al disco; con la tunisina Amina in «Canta Palestina»; con zi’ Giannino del Sorbo in «Vott’’o sole arint’». 

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Perché ridare vita a un disco come questo, Enzo, al tempo della canzone streammata? 
«Perché ci sono canzoni che durano, che non muoiono, che, sia pur sotto traccia, resistono. Perché non si vive solo di canzoni usa e getta».

L’ecologismo di «Salvammo ‘o munno», il j’accuse al colonialismo mai interrotto di «Chest’è l’Africa», l’urlo di dolore di «Canta Palestina» e quello dell’infanzia violata di «Tutte eguale song’ ‘e criature»: un album politico. Ma non è frustrante pensare che nulla è cambiato, che a nulla è servito il tuo/nostro sgolarti? 
«Tutto è frustrante: volevamo cambiare il mondo e non ci siamo riusciti. Anzi: vogliamo cambiare il mondo e non ci riusciamo. Ma continuiamo a provarci, con attimi di scoramento ed altri di speranza; quando vedo sotto il mio palco tanti giovani so che non è stato vano, che ci sono nuove forze a lottare per un altro mondo possibile. Per la Palestina, per il pianeta, per i bambini vittime della nostra violenza insensata, per un continente intero che è ancora sfruttato senza pietà».

Il suono è meticcio, etnico, newpolitano e terzomondista. 
«Per me, dopo il neapolitan power, soul, il funky, il primo rap con Afrika Bambaataa, è venuta la world music. Rinunciavo ad una musica che amavo ma non era mia, mi aveva colonizzato. Per scoprirne un’altra che amavo e che non volevo colonizzare. Con gli ospiti del disco - purtroppo Manu, Hugh e zi’ Giannino non ci sono più - c’era un rapporto alla pari, di fratellanza, di valorizzazione delle differenze di cui eravamo tutti portatori».

Il dialetto è verace, contemporaneo, metropolitano. 
«Pino Daniele e James Senese avevano iniziato a portare la parola sul ritmo, io ho estremizzato quel discorso. Vengo dalla periferia di Marianella, ma ho calcato i palcoscenici con James Brown e Tina Turner. Usavo, ed uso, parole antiche, ma con aderenza alla narrazione dei giorni correnti. Non a caso i Co’Sang - che bello saperli di nuovo insieme - mi sentivano vicino». 

È anche un dialetto ricercato, che non risolve tutto nella rima ad effetto. 
«Non mi piace dirlo “poetico”: chi stabilisce che io faccio poesia e un neomelodico no? Direi, però, che non erano versi “pronto moda”, che non occhieggiavano al facile consenso».

Hai lasciato il disco intatto, senza aggiungere, come si usa nelle riedizioni, nemmeno un inedito. 
«È un’abitudine che non mi piace. Un disco ferma il tempo e io non baro con il tempo. Ora, però, suona meglio per la rimasterizzazione, e lo trovi in vinile, formato in cui non era uscito, e in digitale. A giugno uscirà un brano inedito, un requiem».

Altri impegni? 
«Domani presento “Salvammo ‘o munno” alla Feltrinelli di piazza dei Martiri. L’1 giugno partecipo, in mezzo a tanti giovani, a “Napoliindie”, il festival di Gianni Simioli a Castel Volturno. Il 3 giugno ricevo una laurea honoris causa in composizione ed orchestrazione dal conservatorio di Benevento». 

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