Donne e carriera, l'inciampo del welfare

Il gender gap pesa dappertutto: dal reddito medio più basso alle inferiori opportunità di progressione. Uno dei fattori: il ruolo di caregiver in famiglia è sulle spalle delle donne. Martina Tombari, ceo di Walà: «Basta parlare di conciliazione tra vita privata e occupazione, perseguiamo invece l’integrazione»

Donne e carriera, l'inciampo del welfare
di Marco Barbieri
Mercoledì 27 Marzo 2024, 14:40 - Ultimo agg. 28 Marzo, 07:15
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Le donne lavorano in media meno giorni in un anno rispetto agli uomini, certamente meno anni, più spesso scelgono il part-time, fanno carriera con più fatica e soprattutto, se hanno un figlio – o un genitore anziano da accudire – restano a casa e lasciano l’occupazione.

Senza considerare che, nonostante i minimi tabellari oggettivi, spesso proprio in sede di assunzione c’è un divaricamento di stipendio. Così il loro reddito diventa inferiore a quello degli uomini per tutte queste ragioni. È sterile fissarsi sui numeri del “gender pay gap” – dato oggettivo, più evidente in Italia, ma rilevabile ahimé anche altrove –, è più utile guardare ai fattori che lo determinano e si configurano come una sorta di “violenza economica” cui viene sottoposta l’altra metà del cielo.
L’Osservatorio dell’Inps sul lavoro dipendente e indipendente ha scattato una fotografia impietosa: nel 2022 i maschi rappresentano il 56,3% dei lavoratori dipendenti e indipendenti e presentano un numero medio di settimane lavorate nell’anno pari a 43,9 e un reddito medio annuo da lavoro di 27.254 euro, mentre per le femmine abbiamo 42,1 settimane medie lavorate e un reddito medio annuo di 20.378 euro.


LE CLASSIFICHE

Può darsi che nel recente passato andasse anche peggio, ma se arriva qualche segnale in controtendenza non c’è motivo di gioire, ma solo un’occasione per impegnarsi di più per contrastare la diversità di genere e le sue conseguenti discriminazioni e violenze, nella sfera economica e non solo. E non solo in Italia. L’ultimo report della Banca Mondiale “Women, Business, and the Law” pubblicato il 4 marzo scorso sottolinea – tra l’altro – che le donne nel mondo godono in media solo del 64% delle tutele legali di cui godono gli uomini. E qui il dato è peggiorato, era al 77%.
Le tutele legali sono spesso premessa dell’esercizio pieno dei diritti. Complessivamente l’ultima edizione del “Global Gender Gap Report” (giugno 2023) pone l’Italia al 79° posto su 146 Paesi. Era al 63° nel 2022. Insomma, siamo peggiorati, e non di poco. L’indice compone quattro fattori di riferimento: partecipazione economica, livello di istruzione, salute, empowerment politico. Se è vero che l’indicatore della partecipazione economica è l’unico (con quello della salute) a essere migliorato, è anche vero che ci pone al 104° posto (eravamo al 110°) su 146. Un po’ poco.
Ma è vero che ci sono settori economici più aperti al “gender equality”, come il mondo del lavoro bancario, dove ormai le donne dipendenti in Italia sono circa il 50%. Ma se poi si guarda ai ruoli dirigenziali, rieccoci al gap: 20%. Non dappertutto. Almeno un caso di scuola c’è. In Italia Bnl-Bnp Paribas si vanta, a ragione, di essere l’unica azienda con ceo e presidente donna. Una rarità anche in Europa, a dire il vero. «Mi piace condividere subito un dato: 40%. È il nostro obiettivo di presenze femminili in posizioni senior di management in Banca, in linea con il Gruppo Bnp Paribas, e siamo ormai prossimi a centrarlo» esordisce Geraldine Conti, Chief of People and Engagement Bnl Bnp Paribas. «Aggiungo che, nell’ambito dei nostri talenti, già oltre il 50% sono donne. Ma, attenzione: per noi colmare il gender gap, e più in generale perseguire l’inclusione in azienda, non è solo un obiettivo quantitativo da raggiungere. In Bnl e nel Gruppo Bnp Paribas l’impegno collettivo è garantire eque possibilità lavorative tra tutti i collaboratori, rafforzando e consolidando un mindset aperto e agile, che consideri la centralità delle persone un valore aziendale e di comunità. Allo stesso modo, la parità salariale è un elemento fondamentale nel raggiungere la gender equality. Nelle nostre politiche retributive, puntiamo in ogni caso al riconoscimento del merito. E il merito non ha genere. Già oggi la retribuzione media delle risorse definite “Material Risk Takers”, perché con impatto sul profilo di rischio della nostra azienda, è sostanzialmente allineata tra donne e uomini».
Ma il gender gap – nella sua rilevanza economica – vale anche in altri ambiti sociali.

A esempio, la sfera della cura della persona, in generale dei servizi di protezione sociale. Insomma, parliamo di welfare. Il welfare familiare è una delle caratteristiche del modello di welfare “mediterraneo”, italiano in particolare. Nel senso che senza il contributo della famiglia non avremmo la qualità e la quantità dei servizi di welfare di cui godiamo. Qualche anno fa l’allora ministro Giulio Tremonti sosteneva che il welfare in Italia ha due pilastri: «Inps e famiglia».


L’AIUTO A CASA

Peccato che nella famiglia il caregiver – per il figlio come per il genitore anziano – è quasi sempre donna: almeno nel 71% dei casi. Sei volte su dieci (60,9%) questi caregiver familiari, in prevalenza donne, sottraggono tempo alle proprie attività per provvedere alle cure del malato o comunque del soggetto debole da accudire. Dati che sembrano evidenziare una linea di continuità fra il ruolo di madre come principale deputata alla cura dei figli, ancora prevalente nel nostro Paese (i congedi parentali son per l’80% richiesti dalle donne), con quello di “accudimento tout court” per tutto l’arco della vita.
E poi il 92,8% delle donne (madri e nonne) aiuta economicamente figli e nipoti. E qui si passa dai servizi di welfare al sostegno del reddito familiare: per più di una donna (per lo più nonna) su quattro questo significa privarsi di una grossa fetta della pensione: il 27,2% di loro infatti aiuta figli e nipoti con più di 250 euro ogni mese, che diventano almeno 500 euro per il 12,2%. «Per tutto questo – sostiene Martina Tombari, ceo di Walà, esperta di welfare e di welfare aziendale in particolare – penso sia sbagliato parlare di conciliazione vita-lavoro, perché si dà per implicito un conflitto da sanare tra vita privata e lavoro, mentre ciò che dobbiamo perseguire è l’integrazione, la cosiddetta “work integration” tra due aspetti della vita che si sostengono dandosi reciprocamente valore. E questo riguarda tanto gli uomini quanto le donne, senza differenza di genere, mentre oggi assistiamo a uno sforzo quotidiano di “conciliazione” pressoché a carico esclusivo delle donne».

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