Il prefetto: «Allarme racket, poche le denunce»

di Paola Perez
Mercoledì 2 Dicembre 2015, 00:04
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«Il fenomeno del racket non accenna a diminuire. E le denunce sono troppo poche». Va subito al cuore del problema il prefetto Gerarda Pantalone: con le associazioni anti-pizzo ha un rapporto quasi quotidiano, conosce bene l’emergenza, prova a studiare le contromisure.

«Lo so che suona strano se a dirlo è un rappresentante dello Stato - prosegue - ma il problema di fondo, oltre la paura, è quello della scarsa fiducia nelle istituzioni. Su questo fronte dobbiamo impegnarci al massimo. Noi da un lato, tenendo le porte aperte ai bisogni della gente; i cittadini dell’altro, dimostrandosi disponibili a segnalare l’illegalità».


Sulla vicenda di Ciro Moccia cosa si può dire?

«Quanto allo scenario, ci sono indagini in corso».

E sulle modalità dell’agguato?

«Che testimoniano la volontà di rappresentare un atto di forza ben visibile. Il livello dell’aggressione è stato altissimo. Un raid da professionisti, gente che sa sparare senza uccidere, che voleva dare un messaggio molto evidente».

Come si inquadra oggi, tra a Napoli e provicia, il fenomeno del racket?

«Possiamo leggerlo essenzialmente da due punti di vista. La prima considerazione da fare è che rappresenta sempre e comunque uno dei business più redditizi per la criminalità organizzata. La seconda riguarda i raid intimidatori: i gruppi malavitosi usano la potenza di un attentato non tanto e non solo per spaventare la vittima, ma anche o soprattutto per mostrare il loro predominio sul territorio».

Poche denunce, diceva.

«Pochissime, insisto».

Perché?

«Non è solo paura. In molti casi, purtroppo, sottostare al ricatto diventa assuefazione a un sistema. È un’esperienza che la gente ha sempre vissuto, continua a vivere, e in qualche modo si aspetta».

Diventa un fatto normale, insomma?

«Normale magari no, forse è un’espressione eccessiva. Diciamo che si mette in conto la possibilità. Molti non capiscono che soltanto la ribellione consente di liberarsi da un incubo. Serve una svolta culturale».

A parlare con le forze dell’ordine, però, qualche rischio si corre.

«Questo è innegabile».

E allora come si può convincere un imprenditore o un commerciante a chiedere aiuto?

«La soluzione migliore è affidarsi alla rete delle associazioni. Chi vuole denunciare si espone meno, perché non è obbligato a varcare la soglia di un commissariato o di una caserma dei carabinieri. Ci sono persone che raccolgono informazioni in maniera confidenziale, direi quasi amichevole».

Detta così sembra semplice.

«In realtà non lo è. Esistono realtà territoriali, a Napoli come in provincia, dove diventa difficile persino aprire la sede di un’associazione. O meglio, i locali vengono inaugurati e non ci va mai nessuno. In questi casi si cerca una strada alternativa, si crea uno sportello virtuale, un sito internet o un numero verde».

E in questo modo funziona?

«Non è detto. Quando il contesto è veramente ostile, i telefoni restano muti e le pagine web vuote».

Un tempo c’erano i poliziotti di quartiere...

«Ci sono ancora».

È un esperimento sul quale bisogna continuare a puntare?

«Il sistema va potenziato, ma non è la giusta contromisura per il racket. Mica possiamo mettere un poliziotto accanto ad ogni cittadino. L’associazionismo funziona meglio».

Il meccanismo dell’estorsione è cambiato? Le vittime sono più spesso titolari di grandi aziende o piccoli commercianti?

«Sostanzialmente è immutato, e prende di mira tutte le categorie».

E quali sono le categorie che più facilmente denunciano?

«Da quanto ho potuto vedere personalmente negli incontri presso le associazioni, i più battaglieri sono i grandi imprenditori del settore alimentare, dolciario in particolare. Non solo si mostrano pronti a segnalare i tentativi di estorsione, ma si schierano in prima linea nelle iniziative di legalità».

Dove trovano tanto coraggio?

«Nel fatto che appartengono a un settore con le spalle forti. L’alta qualità alimentare è una colonna per l’economia a Napoli e in provincia».

In comitato ordine pubblico si è parlato di allarme racket, o pensa di dedicare a questo tema una prossima riunione?

«Abbiamo messo a punto un programma complessivo per la sicurezza in vista delle festività, considerato l’aumento del flusso turistico, gli eventi religiosi legati al Giubileo tra Napoli e Pompei, la necessità di tenere alta la guardia sul fronte terrorismo. In questo quadro va quasi in automatico un maggiore livello di attenzione per il racket, che notoriamente a Natale intensifica le pressioni».

Ha fatto cenno a una svolta culturale. Associazioni a parte, dove si può avviare un percorso di educazione civica?

«Già a scuola, senz’altro. Stiamo orgranizzando incontri con i ragazzini delle medie per sensibilizzarli al tema del racket e dell’usura».

E a questa età si mostrano ricettivi, attenti al problema?

«Assolutamente sì. L’importante è scegliere il linguaggio giusto per catturare la loro attenzione. Noi ci abbiamo provato, e a quanto pare ci stiamo riuscendo, utilizzando fumetti e cartoni animati».

Basterà per farli diventare adulti consapevoli?

«Non basta, se ci limitiamo all’iniziativa singola.
Non possiamo fermarci alla giornata in prefettura, che magari diventa una giornata di vacanza dalle lezioni. Devono continuare gli insegnanti a scuola, devono continuare i genitori in famiglia».