Dc, trent'anni fa l'addio al partito della fede, del potere e del consenso

La balena bianca si arenò con la stagione di Tangentopoli

Mino Martinazzoli all'assemblea di Roma
Mino Martinazzoli all'assemblea di Roma
di Generoso Picone
Giovedì 27 Luglio 2023, 07:00 - Ultimo agg. 28 Luglio, 07:30
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Se è vero che ogni fine - specie quando assume i toni di un dramma umano collettivo - merita un epicedio, il canto funebre che Pietro Citati compose per la Dc appare decisamente il più severo. Perché nel suo scritto del 1996 titolato appunto “Epicedio della Democrazia cristiana” il raffinato critico letterario amante di Carlo Emilio Gadda e Franz Kafka, dopo aver passato in rassegna mezzo secolo di fatti e misfatti, debolezze misteri, forza e debolezza degli uomini dello Scudocrociato, arriva a interrogarsi sulla loro sorte. «Forse si estingueranno, come il sale che a poco a poco si perde nell'acqua» o «contageranno tutti gli altri con la loro grigia grazia, con il loro ambiguo veleno. In questo paese, non sono stati mai veramente amati: eppure per cinquant'anni hanno espresso l'anima degli italiani più dei fascisti e dei comunisti. Per questo il paese vuole dimenticarli: non desidera riflettersi nel loro specchio». 

Oggi è davvero così? Oggi a trent'anni dalle giornate dal 23 al 26 luglio del 1993, quando al Palazzo dei Congressi dell'Eur a Roma la Dc sceglie di mettere il punto a una vicenda durata cinquant'anni e 129 giorni, nella precisa contabilità dello storico Gabriele De Rosa, di far arenare la Balena bianca descritta nei tempi d'oro da Giampaolo Pansa, di voltare pagina. È il segretario Mino Martinazzoli a proporlo e davanti a 500 tra delegati e ospiti accorsi per l'assemblea programmatica lancia il progetto della terza fase nella tradizione cattolico-democratica per andare alla costituzione del Partito popolare entro il gennaio 1994. Si tratta di un gesto politico estremo per tentare di far fronte al peso degli eventi: l'avviso di garanzia per mafia a Giulio Andreotti, l'ondata destabilizzante di Tangentopoli con l'arresto di Enzo Carra e le indagini su Arnaldo Forlani, Antonio Gava, Vittorio Sbardella, Enzo Scotti, l'addio di Mario Segni protagonista della stagione dei referendum elettorali, l'abbandono di Leoluca Orlando che a Palermo ha dato vita alla Rete.

Rappresenta il ritorno simbolico alle origini sturziane dell'appello a «tutti gli uomini liberi e forti» lanciato il 18 gennaio 1919 e, nel recupero di un calendario politico fondativo a cui necessariamente attingere, all'incontro tenuto dal 18 al 24 luglio 1943 all'eremo di Camaldoli che aveva prodotto le tesi del Codice, ispirazione e guida della Dc che allora stava per nascere. Ma diventa anche la vigilia della diaspora che ne avrebbe disperso i mille pezzi spesso spaiati e incomponibili che però si ritrovavano puntualmente in un contenitore unico saldato da un patto non scritto di coesistenza conveniente. Adesso è pronto a esplodere e a generare Ppi, Ccd, Cdu, ad aprire vie di fuga in Forza Italia o Alleanza Nazionale, a disperdersi nella giungla delle sigle d'occasione.

Nonostante l'unico voto contrario dell'economista Ermanno Gorrieri - il quale l'11 settembre lascia la Dc per fondare il Movimento Cristiano Sociali - la decisione dell'Eur è assai sofferta. Si comprende presto che è impossibile tornare alle posizioni antiche, ripristinare l'alchimia politica misteriosa che aveva portato Jacques Nobecourt su “Le Monde” ad avvertire che «la Dc non si definisce, si constata». Perché aggiungerà Marco Follini nel volumetto dedicato alla Dc pubblicato nel 2000 all'interno della collana “L'identità italiana” curata da Ernesto Galli Della Loggia per Il Mulino «la Dc fu contemporaneamente il partito della società, il partito dello Stato e il partito della Chiesa. Un partito di consenso, di potere e di fede». L'impressione è che questo equilibrio sia andato fuori asse e l'assemblea dell'Eur ne abbia malvolentieri preso atto. Si è dissolto il partito-madre fissato nell'immagine da Umberto Eco, il partito degli italiani interpretato ad Agostino Giovagnoli, il partito del irrisolvibile teorema letto da Franco Cassano, il partito della mediazione pura visto da Mario Tronti: l'approdo tragico di un lungo processo che Gianfranco Pasquino definisce di «eutanasia democristiana» iniziato con l'affossamento delle riforme all'inizio degli anni '80 e che Pietro Scoppola colloca nel passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare con i referendum del 1991 e del 1993.

Ma su questo scenario incombe la morte di Aldo Moro, con i 55 giorni trascorsi tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 nella prigione delle Br, il periodo in cui la Dc viene risucchiata in una posizione di retroguardia rispetto a quella morotea della democrazia compiuta. Un'occasione svanita. 

«Non moriremo democristiani» aveva titolato Luigi Pintor su “Il Manifesto” del 28 giugno 1983, il giorno dopo la sconfitta subìta dalla Dc guidata da Ciriaco De Mita alle elezioni politiche. A trenta dall'assemblea dell'Eur c'è chi in fondo se ne dispiace. Il mantra «rifaremo la Dc» risuona puntuale epperò la democristianità da etichetta di appartenenza pare essere diventata categoria di antropologia politica: un modo di agire di cui anche a sinistra si sente la mancanza. Gianfranco Rotondi, oggi deputato con Fratelli d'Italia, ha indicato ne “La variante Dc”, uscito l'anno scorso da Solferino, «la seconda vita dei democristiani». Ortensio Zecchino, già ministro dell'Università, volge lo sguardo alla prima e ha allestito un comitato nazionale per gli 80 anni della nascita del partito con il Codice dei Camaldoli. Nessun politico in attività, neanche un convegno, ma seminari di studio e supporti audiovisivi. «Occorre ricominciare a raccontare correttamente una storia troppe volte travisata», dice con autentico orgoglio. Democristiano. 

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