Gualazzi, un «eclettico divertissement»

Raphael Gualazzi
Raphael Gualazzi
di Federico Vacalebre
Domenica 12 Marzo 2017, 19:00
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Tre e giorni di concerti all’Augusteo di Napoli: si comincia domani sera con Raphael Gualazzi, si continua martedì con Enzo Gragnaniello e Dulce Pontes, mercoledì tocca a Vinicio Capossela.
Raphael, che tour è questo che porta il titolo del suo ultimo album, «Love live peace»?
«Un po’ assomiglia al disco, un po’ se ne libera per andare avanti e indietro nel tempo e nel mio repertorio, ma non solo. Con i pezzi del mio disco ed i miei successi precedenti, infatti, ci sarà spazio per rivisitazioni dedicate alla musica nera che mi ha sempre ispirato: dal pianoforte stride al blues, al jazz, al soul. Alternare i generi permette di variare le atmosfere, di sfruttare al meglio la band di polistrumentisti che porto con me in concerto».
«Love live peace» erano parole d’ordine degli anni Settanta.
«È vero, ma quel titolo, e la canzone che ha quel titolo, mi sono stati dettati da tempi a noi ben più recenti. Ero ancora sconvolto dall’attacco al Bataclan, pensavo che se avere paura di una guerra è bruttissimo, ancora peggio è dover avere paura nella quotidianità di un vigliacco atto terroristico. Così l’amore, la vita, la pace erano concetti, e parole, e suoni, che mi tornavano nella testa e nel cuore e sulle punte delle dita che andavano al pianoforte. Parole d’ordine, sì, ma di sopravvivenza, quasi un esorcismo più che un sogno hippy o un revival del flower power».
L’ecletticità rimane una componente importante del suo stile. «L’estate di John Wayne» e «Love goes down slow» sembrano venire da due artisti diversi, e non solo per la lingua.
«È un risultato, non una ricerca, una scelta voluta. Ho iniziato suonando il piano stride, quell’approccio e quel suono mi hanno colpito, sono stati la mia modalità start up. Poi però ho allargato l’orizzonte. “Reality and fantasy” e “Happy mistake” erano dischi più acustici, nell’ultimo, grazie anche alla produzione di Matteo Buzzanca, il suono è rinforzato, i generi si seguono l’uno dopo l’altro, tra i contributi di artisti che stimo come Pacifico o Malika Ayane».
C’è stato spazio anche per l’elettronica di Bloody Beetroots, il producer dance mascherato con cui andò addirittura a Sanremo nel 2014.
«Per qualcuno dovevamo essere agli antipodi, ma dimostrammo che chi fa musica e sa ascoltare trova punti e ponti di incontro importanti».
Che Italia sta attraversando il suo tour? Che pubblico incontra nei teatri? Speranzoso o sfiduciato? Sfinito dalla crisi o pronto a rialzarsi?
«È come chiedere se il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno. Chi viene a sentirmi ha voglia di divertirsi, di emozionarsi ed io non sono mai stato uno che dava troppo peso alla politica. L’Italia è la terra della grande bellezza data per scontata, dove a volte invece di goderci capolavori d’arte e natura ci avviliamo per piccole difficoltà quotidiane. Il tempo che attraversiamo, poi, ci rende tutti come frastornati dal mondo mediatico che va più veloce di noi. Ma credo che le nuove generazioni stiano sviluppando un senso critico importante, che ci sia voglia di emozioni sincere, reali e non virtuali, in musica come in tutti gli altri campi».
 

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