I Suonno d'Ajere in concerto, CantaNapoli ritrovata? «Piace più all’estero»

Il trio al Trianon per presentare il secondo album

I Suonno d'Ajere
I Suonno d'Ajere
Federico Vacalebredi Federico Vacalebre
Giovedì 4 Aprile 2024, 07:00 - Ultimo agg. 5 Aprile, 07:43
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C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico. Si, lo so, lo ha già detto qualcuno prima, ma Giovanni Pascoli non parlava dei Suonno d’Ajere, io sì. E di «Nun v’annammurate», il secondo album del trio, in uscita su etichetta Italian World Beat domani, quando il disco sarà presentato in concerto al Trianon. Qualcosa di nuovo, anzi d’antico: c’è profumo di cantaNapoli, piccolo mondo antico che dovrebbe essere ormai estinto, eppure risorge dalle sue ceneri, come l’araba fenice, grazie al canto da cardillo appassionato, sensuale, discolo, nuovo-antico di Irene Scarpato ed ai plettri nuovi.antichi di Marcello Smigliante Gentile (mandolino, mandola, mandoloncello) e Gian Marco Libeccio (chitarra classica, chitarra elettrica, chitarra acustica). Un concertino d’altri tempi, ma con la consapevolezza dei nostri tempi, come dimostrano certe progressioni armoniche che pagano pegno alla frequentazione jazzistica, ma anche la consapevolezza di affrontare testi desueti, a tratti politicamente più che scorretti, senza buttar via il bambino con l’acqua sporca.

«Acclamati più all’estero che in Italia», i Suonno d’Ajere non si fossilizzano sul repertorio dei classicissimi, anzi, recuperano pagine dimenticate senza tentazioni da puristi, nè pruriti da collezionisti: «La scelta dei brani è frutto spesso delle segnalazioni di chi ci conosce e ci propone una riscoperta, ci passa spartiti del nonno, di frequentazioni: abbiamo attinto al sapere di Salvatore Palomba come a quello di Pasquale Scialò», spiega la bella Irene.

Che guarda a Giulietta Sacco in «‘A gelusia» (Ciro Letico–Gennaro Ciaravolo, 1934), ma poi impara la lezione di Nino Taranto nel farsi fine dicitrice macchiettista in «‘E ggioche ‘e prestiggio» (Pisano-Cioffi, 1955).

In mezzo ci sono altre chicche scavate dal cascione dei ricordi, dalla «casciaforte» carosoniana dei sentimenti: «Ammore busciardo» (Enzo Di Gianni–Enzo Barile, 1944), postblues diviso con Raiz per la storia di un soldato che torna dalla guerra e trova la sua donna sposata con un altro (occhio alla data di composizione); «Il Vesuvio a Parigi» (De Caro-Filibello, 1955), swingata con le Sorelle Marinetti nel ricordo dell’arrangiamento di Pippo Barzizza per Paolo Sardisco; il Viviani di «Mare ‘e Margellina» (1928); il Farfariello di «’Mparame ‘a via ‘e casa mia» (1925), capace di raccontare come pochi lo straniamento degli emigranti; divertissement come «’O calippese napulitano» (Nisa-Malgoni, 1955), che prova a veracizzare il calypso, e «‘A canzone d’o roccocò» (De Crescenzo–Vian, 1950), con coretto rubato all’incisione di Eva Nova. Unico inedito del gruppo è «Fotografia», mentre «Munno cane» di Toto Toralbo racconta una prostituta, una Filumena Marturano, una donna da non sposare: «nun v'annammurate!», avverte il testo, da cui il titolo del disco.

«Ci sono tante canzoni napoletane che sono state dimenticate perché brutte», ragiona la Scarpato, «ma altre che meritano di essere di nuovo frequentate, che magari non sono capolavori come “Era de maggio”, ma si portano dietro un profumo d’epoca, il racconto di un tempo andato, per cui non c’è nessuna nostalgia, ma tanta curiosità». Ecco, allora, l’alternanza di melodie melodrammatiche e di canzoni umoristiche, di brani tradizionali ma anche apertamente contaminati dai suoni arrivati con i conquistatori e la modernità. Più che sui dischi, ormai patrimonio solo dei collezionisti, la ricerca avviene sul web, almeno la prima, «quella con cui individuiamo un brano che cattura le nostre attenzioni. Poi ne cerchiamo le varie incisioni, scopriamo strofe cadute, controlliamo diverse edizioni. A volte ne esistono poche versioni, rimettiamo in circolazioni canzoni che in qualche modo diventano nostre».

Se i plettri le trillano attorno con maestria nuova-antica, la voce di Irene è al centro di tutti: «Ogni tanto qualcuno tira fuori un paragone con l’inarrivabile Gilda Mignonette, di sicuro io guardo all’innarrivabile Giulietta Sacco, ma poi la voce è mia, naturalmente portata per certe fioriture, certi abbellimenti, certe appoggiature, eppure figlia di questi giorni, educata da ascolti contemporanei, come quelli dei miei compagni d’avventura».

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«Fotografia» e «Munno cane» dicono, infatti, della voglia di arrivare a trovare un repertorio moderno, «ma qui la cosa si complica, vorremmo qualcosa in sintonia con il percorso fatto finora, non pop in dialetto». Il nome del trio è quello di una canzone di Pino Daniele: «Ci venne in mente perché rendeva l’idea che avevamo in testa, poi ci rendemmo conto che era il titolo di una perla del Nero a Metà, forse non a caso del suo primo disco, il più partenopeo, meno contaminato».

Domani sera al Trianon, assistiti dal regista Giuseppe Miale Di Mauro, i Suonno d’Ajere avranno sul palco anche tre fiati e tre percussioni: «Iniziamo e chiudiamo lo spettacolo da soli, ma ci piace aprirci, aggiungere energia. “Ammore busciardo” la faremo con Gianmarco alla chitarra elettrica e Marcello all’acustica». In scaletta anche testi con cui Irene per prima è in disaccordo: «La nostra “Dove sta Zazà” contiene la versione originale, quella di Nino Rota per il cinema ed una ritrovata con dei versi irriferibili. La canzone napoletana è maschilista, patriarcale, ha persino flirtato con il regime fascista. Certe cose non si possono cantare proprio più, altre proviamo a contestualizzarle». 

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