Zucchero e il tour internazionale: «Voglio morire sul palco. O ritirarmi in tempo»

Concerto alla Royal Albert Hall di Londra

Zucchero in concerto a Londra
Zucchero in concerto a Londra
di Enzo Gentile
Martedì 2 Aprile 2024, 06:56 - Ultimo agg. 3 Aprile, 07:30
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Al via, sabato scorso, vigilia di Pasqua, da un luogo simbolico e prestigioso come la Royal Albert Hall di Londra per l’«Overdose d’amore world wild tour»: tre serate sold out, per oltre 15.000 presenze e un entusiasmo sano, pieno, totale. Zucchero ha tenuto il palco per due ore e quaranta minuti, sorretto splendidamente dalla sua band, 11 elementi a cui si aggiunge verso la fine il coro gospel L J Singers e, su «Senza una donna», anche Jack Savoretti. In tutto 28 brani, tra hit - «Baila», «Iruben me», «Dune mosse», «Miserere« (con tanto di filmato a ricordare Pavarotti), «Diamante», «Diavolo in me»... - e repertorio meno noto. Londra fa da trampolino per un giro lunghissimo che proseguirà subito in Danimarca, Scandinavia, paesi baltici, Usa e Canada per poi tornare in Europa, comprese cinque tappe negli stadi italiani: il 23 giugno a Udine, il 27 a Bologna, il 30 a Messina, il 2 luglio a Pescara, il 4 a Milano, sempre con qualche amico/ospite a sorpresa.

Uno show basato solo e soltanto sulle canzoni, suonate e cantate dal vivo dalla prima all’ultima nota, Adelmo.

«È il modo in cui ho iniziato questo mestiere, non ne conosco altro.

Noi stiamo sul palco per divertirci, per condividere un lavoro che è anche gioia, per noi e per il pubblico. Non saprei fare diversamente: so di tanti che usano le sequenze e l’aiutino da parte della tecnologia, ma non fa per me. Certo può essere più comodo, magari ti evita qualche problema e rischio, ma non mi interessa. Vorrei morire sul palco, l’ho detto prima io di Vasco. Ma se non sarò più in grado di starci sopra è facile che io sparisca piuttosto che trascinarmi».

Sta girando il mondo dal 1990 del concerto al Cremlino di Mosca: cosa le manca ancora?

«Sono contento di tutti i giri che ho fatto, di tutti i paesi in cui siamo stati: Tahiti, Mauritius, Oman, Armenia e tanti altri dove poteva anche non arrivare nessuno. Mi manca un po’ l’Africa da approfondire, voglio recuperarla presto. E magari tornare, quando sarà possibile in posti dove ero di casa, stavo benissimo come Russia e Ucraina, che adesso sono da escludere, anche se mi invitassero. Come eviterei di suonare per Netanyahu o Trump, gente che non mi piace».

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Ha toccato cinque continenti e 69 nazioni. Com’è cambiata la reputazione dell’Italia nel mondo? Come ci vedono oggi?

«Beh, diciamo che verso noi musicisti c’è una grande stima e la circolazione di tanti artisti, produttori, sessionmen, ha aiutato molto la diffusione nei vari mercati. Non esistono fenomeni come i Maneskin provenienti da Germania, Francia, Olanda... Sul fronte della politica e della società, le cose stanno come sappiamo tutti».

Crede nel rock italiano, insomma.

«Beh, non c’è più la ribellione che prima passava per il rock, oggi forse intercettata da qualche giovane rapper o trapper, che la esprime con un linguaggio diverso».

A proposito, le piace la nuova musica italiana?

«Trovo che ci siano ragazzi in gamba, che mi piacciono per quello che dicono e come lo dicono, su tutti Salmo, ma anche Marracash, Blanco. C’è una generazione emergente di artisti che promettono bene, studiano, suonano meglio di quelli della loro età ai miei tempi. Poi ci sono tanti che non mi interessano, che infarciscono le loro canzoni di ospiti a caso: manco si vedono o si conoscono, ma credono che l’algoritmo li aiuti nel loro percorso. Ecco, quelli me li perdo volentieri: un po’ come l’ultimo Sanremo, che ho seguito poco e male, interminabile, noioso, pesantissimo. Ma non è un problema: piace a tanta gente, quelli come me possono farne a meno».

Insomma non ci andrebbe nemmeno come superospite?

«Io? Ma a far cosa? Siamo rimasti l’unico Paese al mondo dove c’è ancora la gara come i cavalli da soma, c’è ancora chi vince e chi perde su delle canzoni. Io lo trovo allucinante, ma piace al popolo. Siamo rimasti ai tempi degli antichi romani».

Torniamo ai rapper: dal governo si pensa a un «protocollo» per regolamentarne i testi, accusati di essere violenti, maschilisti, di cattivo esempio.

«Non credo che uno come Guccini o De André o De Gregori sottoscriverebbe una roba del genere. E nemmeno io. Quanto a violenza verbale, poi, i nostri politici non scherzano».

Chi dovremo aspettarci con lei sul palco per le date italiane?

«Mi piacerebbe Mark Knopler, se fosse libero, così come Cat Stevens».

Il 25 settembre dell’anno prossimo compirà 70 anni, nel 2025 cadrà anche il quarantennale della sua carriera.

«Io non sono uno che ha mai celebrato il compleanno, magari provvederanno altri. Nel mio immediato futuro vedo tanta musica dal vivo e ho voglia di scrivere qualcosa. Le idee non mancano, di stimoli continuo ad averne».

Chiudiamo con Londra.

«Qui, in questo teatro, nel 1990, Eric Clapton mi diede la possibilità di aprire 12 dei suoi show: i discografici si convinsero così a lanciarmi anche fuori dall’Italia. Ma l’anno dopo, il divorzio e il successo mi pesavano anche qui. La finestra della camera d’alberto era aperta, volevo buttarmi giù, ma un amico mi portò a fare un giro e... sono ancora qui».

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