Teresa De Sio: «Così canto Pino Daniele». I versi inediti per l'amico «jammone»

Teresa De Sio e Pino Daniele
Teresa De Sio e Pino Daniele
di Federico Vacalebre
Martedì 2 Agosto 2016, 14:40 - Ultimo agg. 14:42
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La premessa è secca: «Non sarà un omaggio malinconico, né una celebrazione, che pure potrebbero starci. Per me questo progetto è un vitalissimo atto di devozione». La De Sio, pasionaria del nostro (post)folk, spiega così «Teresa canta Pino», progetto che la terrà impegnata quest’estate, tra un concerto e l’altro: «È dal giorno della sua scomparsa, o subito dopo, che ci penso, ma mi è servito tempo per metabolizzare il fatto che davvero non ci sia più, e poi per trovare lo spirito giusto, io almeno spero che sia così, per affrontare questa sfida».
Da cantautrice a interprete: solo per il Nero a Metà?
«Sì, solo per lui. E per me. E per la nostra città. E per la nostra canzone d’autore. Insomma per tanti motivi. Negli anni Ottanta lui era il re e qualcuno chiamava me la regina. Averlo ritrovato sul palco del suo concertone al Palapartenope nel 2013 ci aveva riportati a quei tempi, con consapevolezza più che con nostalgia. Aveva un sorriso smagliante quando mi presentava, facevamo insieme “Quanno chiove” e la mia “Voglia e turna’”, poi ci ritrovavamo in scena per il finale corale di “Napule è”, il suo inno, il nostro inno. Per decidermi davvero a trasformare i miei propositi in un disco è servito il coinvolgimento della neonata Campania Music Commission, che ha promesso di starmi vicino nel progetto, che diventerà poi un tour».
«Teresa canta Pino», allora. Come sarà?
«Non lo so, con Sasà Flauto stiamo scegliendo i pezzi, ipotizzando gli arrangiamenti, cercando le sonorità. Privilegeremo il Daniele napoletano, tra brani celeberrimi e chicche passate ingiustamente inosservate. Avrò un rispetto totale della melodia e dei versi, ma cercherò di portare il tutto nel mio mondo sonoro, con amore. Il Lazzaro Felice è un classico, con i classici si può osare: non metterò su una cover band, sarà davvero Teresa che canta Pino».
Unico inedito annunciato «’O jammone», termine della parlesia a lui caro, usato in «Tarumbò».
«Lui era ‘o jammone, ‘o jammo base. Questo pezzo mi è venuto a caldo, non potevo che salutarlo con la musica. L’ho raccontato come un vicino di casa che suonava sempre la sua chitarra e tutto il vicolo stava ad ascoltarlo, finché, un giorno, se ne va in America e... “A parla’ parlava poco, è overo, ma ‘nfaccia a canta’ non lo faceva fesso nessuno”, ho scritto pensando a lui, “e chella chitarra, poi, teneva dint’’e deta ‘o zucchero».
Davvero nessuna nostalgia per la stagione del neapolitan power?
«La nostalgia per le cose belle c’è sempre, ma poi bisogna andare avanti. Questo è il mio primo progetto dopo la scomparsa di Marialaura Giulietti, la manager che è stata al mio fianco per una vita. La nostalgia non basta e, anche nel nome di Pino, la musica napoletana deve avere power, potere. Ne ha bisogno la città, ne ha bisogno l’Italia tutta: siamo stati avanguardia capace di riconsegnare la nostra lingua, per altri un dialetto, ad un’intera nazione. Non possiamo accontentarci di essere lamento di pancia, pianto degli emarginati. Ecco, ripartire dall’artista di “Je so pazzo” vuol dire anche capire quale deve essere il ruolo di noi veterani e delle giovani leve, che sono validissime: scommetto su di loro».
L’ultimo incontro con l’Uomo in blues?
«Una cena a casa sua, a Roma, con i figli».
La prima collaborazione?
«Lui aveva già iniziato la sua carriera, io dovevo incidere il mio primo disco solista dopo l’avventura con Musica Nova e le villanelle, gli chiedemmo se voleva scrivere qualcosa per me. Ci ritrovammo con due chitarre in una stanza dell’hotel Clodio a Roma: in poche ore nacque “Nanninella”, che finì, appunto in “Sulla terra sulla luna”, ma anche un altro pezzo, mai finito... chissà che un giorno...».
Il titolo almeno?
«Non c’era, chissà se mai ci sarà».
 

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