Frosinone, uomo accusato di stupro dalla domestica polacca: dieci anni di calvario, ma era tutto inventato per avere i soldi

Dieci anni di calvario per un’accusa di stupro. Ma era tutto inventato
Per dieci anni è stato costretto a convivere con l’ombra del sospetto e l’accusa più infamante per un uomo: aver abusato di una donna. Una spada di...

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Per dieci anni è stato costretto a convivere con l’ombra del sospetto e l’accusa più infamante per un uomo: aver abusato di una donna. Una spada di Damocle che sulla testa di un innocente è rimasta per 3600 giorni. La storia arriva da Isola del Liri, in provincia di Frosinone, dove un uomo si è ritrovato a dover tribolare anni per riuscire a dimostrare la propria innocenza. Si tratta di un ex agente di commercio di 60 anni accusato dalla domestica polacca di violenza sessuale e lesioni e prosciolto martedì scorso dal Gup del Tribunale di Cassino. Un’accusa totalmente inventata, secondo il giudice priva di fondamento e messa in piedi solo per ottenere denaro. Eppure, nonostante questo quadro c’è voluto un decennio perché l’incubo finisse. Una lungaggine della giustizia e un’accusa inventata che hanno minato i rapporti personali e familiari, le amicizie, ma soprattutto l’esistenza di quell’uomo. Ora è tutto finito e lui dice: «Voglio solo dimenticare».  

Quella che sarebbe diventata l’ennesima brutta pagina per la giustizia italiana è iniziata nel 2010, quando l’uomo, ora pensionato, decide di assumere una donna di origini polacche per il disbrigo delle faccende domestiche. L’accoglienza è cordiale e calorosa, tutto fila liscio. Quella donna sulla quarantina sembra essere la persona giusta: è mite e volenterosa. Qualcosa, però, si rompe perché la domestica pochi mesi dopo si reca al pronto soccorso, si fa refertare e poi denuncia ai carabinieri di essere stata abusata sessualmente. «Quell’uomo mi ha violentata», sostiene. Poi scompare. Le indagini partono nel 2011. Lui, che è sempre stato a piede libero, sin da subito respinge le accuse, ma nonostante ciò la giustizia tenta, paradossalmente, di fare il proprio corso. Con la chiusura delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio il fascicolo finisce dinanzi al Gup del Tribunale di Cassino. Viene incardinato il procedimento e l’imputato (assistito dagli avvocati Cinzia Mancini e Fabio Quadrini), in più occasioni, avrebbe chiesto un confronto con quella donna che lo accusava. Un faccia a faccia nel quale tentare di far emergere la verità. Lei, però, non si è più resa reperibile e non si è neppure costituita in giudizio dinanzi al Gup. È tornata nel suo paese. Forse ha già dimenticato tutto. 

L’agente di commercio ora alleggerito dal peso delle accuse ricorda ogni singolo giorno di questi 10 anni. Ma non ha molta voglia di ripercorrere tutte le tappe della vicenda. «È la fine di un incubo. Quella donna ha ricevuto solo del bene. Ho avuto fiducia nella giustizia che, se pur in ritardo, è arrivata. Ora voglio solo dimenticare»: poche parole che l’uomo ha affidato agli avvocati Mancini e Quadrini che lo hanno difeso in questo procedimento. I dieci lunghi anni che sono passati prima di arrivare alla sentenza di non luogo a procedere, sono trascorsi tra indagini, consulenze, rinvii, richieste varie e atti istruttori. Il provvedimento finale del Gup si poggerebbe ora su due elementi portati in evidenza dalla difesa dell’uomo: uno di fatto - di natura investigativa – legato al Dna eseguito sugli indumenti della donna, dove lei sosteneva ci fossero tracce del suo violentatore, e che ha dato esito negativo. C’è poi l’aspetto di diritto, che non è proprio una sottigliezza. La difesa ha fatto entrare nel procedimento dinanzi al Gup, uno dei capisaldi del diritto alla difesa sanciti dalla Corte di giustizia europea che riconosce all’imputato il confronto con il proprio accusatore. La prolungata assenza della polacca dal territorio nazionale ha impedito ogni confronto, di conseguenza è stato leso il diritto alla difesa. 

Ma non è tutto, perché nel corso dell’udienza di qualche giorno fa nel palazzo di giustizia di Cassino i difensori hanno sottolineato la vera intenzione della donna: «Monetizzare una storia inventata». È emersa, infine, altra importante circostanza legata alle dichiarazioni rese dalla donna all’atto della denuncia. Lei in pratica sosteneva di aver chiamato più volte una parente per chiedere sostegno, ma dai tabulati telefonici che la polizia giudiziaria ha depositato nel fascicolo, non c’è traccia. Una serie di elementi per i quali l’esito non poteva che essere: sentenza di non luogo a procedere. Fine della storia. Tutti felici e contenti? Non proprio. Nessuno ridarà i 10 anni di ansie, paure e sospetti all’uomo, l’unica parte lesa della vicenda.

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Il Mattino