Strage di Pescopagano del 1990:
«Ergastolo ingiusto per un pentito»

Strage di Pescopagano del 1990: «Ergastolo ingiusto per un pentito»
di Mary Liguori
Sabato 12 Dicembre 2020, 08:21 - Ultimo agg. 14:44
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È  in corso un secondo processo, dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Napoli, per la prima strage di Pescopagano, avvenuta il 24 aprile del 1990 a Castel Volturno. Sei morti e otto feriti a colpi di pistole e mitragliatrici, massacrati nel corso della più feroce delle battute di caccia della «pulizia etnica» disposta dal clan Bardellino e La Torre. I boss ordinarono alle batterie di fuoco di eliminare i pusher neri che, a Mondragone e a Castel Volturno, secondo loro stavano portando «la morte e la distruzione» e attiravano troppa polizia. Quella sera il commando uccise sei persone e ne ferì altre otto. I morti si chiamavano Salim Kindy, detto il cinese, Arubu, Aly Khalfan, tutti provenienti dalla Tanzania, e Nay Man Fiugy, che invece era iraniano. Alfonso Romano fu l’unico italiano a restare ucciso nella strage. Una vittima innocente per la quale c’è stata costituzione di parte civile con incarico all’avvocato Luigi Vallefuoco. Romano si trovava lì per caso, era un meccanico di 34 anni. Lasciò moglie e sei figli.

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Augusto La Torre, che per quei fatti si è preso l’ergastolo, ha chiesto e ottenuto la celebrazione di un secondo processo. Varie le motivazioni addotte dallo studio legale torinese Rinaudo che rappresenta il pentito «scaricato» dalla Dda in seguito a una foto circolata sui social dopo un permesso premio in cui fece ritorno a Mondragone quand’era già collaboratore di giustizia. Per i nuovi difensori dell’ex capoclan «La Torre è un caso unico di collaboratore di giustizia che formalmente è ancora tale ma è stato sottoposto al regime carcerario di 41 bis», isolamento totale che ne fa, per gli avvocati «un chiaro dissociato dall’organizzazione criminale».

Le sue dichiarazioni da pentito, si legge nel ricorso in Appello, «sono state confermate da altre fonti e La Torre è stato sempre ritenuto attendibile dagli organi inquirenti». Poi un passaggio sulle ritrattazioni che hanno reso la storia di La Torre un controverso caso giudiziario. «La Torre ha collaborato con l’autorità giudiziaria anche per la ricostruzione del caso oggetto del processo fornendo spontanee dichiarazioni sulla vicenda». 

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Alla luce di queste deduzioni, in sostanza, «se vi è collaborazione a La Torre non può essere comminata la pena dell’ergastolo». Durante il processo di primo grado, Augusto La Torre si lanciò in una singolare ritrattazione in merito alle ammissioni sulle responsabilità nella strage di Pescopagano, e dichiarò, in quel frangente, di desiderare l’ergastolo perché terrorizzato dall’idea di ritrovarsi libero e, secondo lui, alla mercé di chi, ancora oggi, vorrebbe la sua morte. Il gup di Napoli ignorò la sua sortita e gli inflisse il massimo della pena. Quella ritrattazione, però, secondo l’avvocato di La Torre fu solo eteroaccusatoria e fu frutto, sempre a loro avviso, dello stato di prostrazione che l’ex sanguinario padrino di camorra provava in quel momento in quanto si sentiva «stanco di essere sfruttato dalla Procura». Ma non è tutto. Oltre l’attendibilità, lo status ambiguo dell’imputato e le sue paturnie, la difesa fa una richiesta preliminare: chiede di appurare la capacità di intendere e volere dell’imputato attraverso una nuova perizia psichiatrica. 

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