Raid e fuoco nel Casertano: i patrimoni
confiscati alla camorra nel mirino

Raid e fuoco nel Casertano: i patrimoni confiscati alla camorra nel mirino
di Claudio Coluzzi
Martedì 15 Settembre 2020, 09:00
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C'è qualcosa che si è inceppato nel meccanismo che, attraverso il sequestro e poi la confisca, porta alla sottrazione dei beni ai camorristi per restituirli allo Stato. E quel qualcosa non è forse un caso che emerge con drammatica evidenza in provicia di Caserta. Ossia nel territorio dove maggiormente, grazie all'impegno di magistratura e forze dell'ordine, ma anche di associazioni e istituzioni pubblico-private, come Agrorinasce, erano stati dati i primi colpi durissimi al clan dei Casalesi.

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Ieri mattina il fuoco ha divorato buona parte di ciò che era rimasto del capannone dell'Euromilk, a San Marcellino, il deposito che Raffaele Capaldo, cognato del capo dei Casalesi Michele Zagaria, aveva adibito a deposito del latte Parmalat, di cui per molti anni e fino alla condanna per associazione camorristica, una quindicina di anni fa è stato distributore esclusivo per il Basso Lazio e la Campania. Quel bene era ancora nella disponibilità dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati e, nonostante i continui solleciti del Comune di San Marcellino, non era stato assegnato al Comune o ad altre associazioni. Già perchè questo è il passaggio cruciale. Non serve a nulla confiscare un bene alla camorra se non lo si destina, in tempi brevi, ad un uso sociale o collettivo. Solo questo passaggio spezza definitivamente il legame, sempre forte in un territorio di camorra, con chi, il camorrista, quel bene lo ha acquistato in maniera illecita. E più passa il tempo, maggiore è l'inerzia dello Stato, maggiori sono i rischi che accada «qualcosa». Come ieri mattina quando ignoti hanno bruciato tonnellate di rifiuti e masserizie che erano accumulate nei capannoni dell'Euromilk, rendendo di fatto inservibile quell'immobile che, per ben tre volte, era stato messo all'asta senza che venisse aggiudicato.
Un caso isolato? Purtroppo no. Il 28 giugno scorso furono incendiati, a S. Maria La Fossa, dieci ettari di grano, due giorni prima della raccolta, sui terreni agricoli confiscati a Francesco Schiavone, e a Schiavone Saverio Paolo, relativi alla masseria Abate. Tale masseria è divisa in due parti di cui una, non confiscata, è di proprietà di due coniugi. Anche loro in precedenza avevano subìto l'incendio di un capannone in cui erano custodite 1500 rotoballe di fieno. E anche in pieno lockdown l'azione dei criminali piromani o manomissori non si era fermata. Il 16 maggio qualcuno aveva messo a segno un atto di sabotaggio in un terreno agricolo della masseria «La Balzana». Era stato danneggiato un ponticello, con l'obiettivo solo per un caso non riuscito, di mandare in tilt tutto il sistema di irrigazione. L'acqua avrebbe inondato i campi, quegli stessi campi sottratti ai camorristi che 35 imprese si erano viste assegnare dopo un bando pubblico.
Ma non sono solo gli attentati e i danneggiamenti a far suonare un campanello d'allarme sul «ciclo virtuoso» dei beni confiscati alla camorra. Il Comune di S. Maria La Fossa si è visto revocare dal ministero dell'Interno un finanziamento di circa un milione e mezzo di euro per la realizzazione di una «Fattoria sociale per l'accoglienza e l'integrazione di immigrati», affidata a «Nero non solo». Erano terreni confiscati a Francesco Schiavone «Cicciariello» e Aniello Bidognetti. Dopo i primi passaggi di consegne il comune di S. Maria La Fossa ha interrotto l'invio degli atti e della documentazione richiesta. E tutto si è bloccato, con la revoca di quanto era già stato assegnato.
Incendi, sabotaggi, burocrazia troppi ingredienti negativi frenano l'azione dello Stato nella direzione che maggiormente i clan temono: essere spogliati dei loro patrimoni.
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